Eccezionale è la condizione del disertore. Nessun uomo in fuga è, ugualmente, senza ritorno.
Il disertore è nemico di tutti. Una canaglia senza colpa, tante volte, se non quella di trovare la guerra insopportabile, senza scopo.
La diserzione è una condizione di vita, che non finisce mai. Si diventa disertori per istinto e poi ci si ritrova a proteggersi da quella scelta, a provare a cancellarla dalla faccia contrita, dalla giubba senza colore.
Il disertore è un uomo che abbandona tutto quello che ama, per non distruggere ogni cosa che tocca.
Nel suo ultimo romanzo dal titolo Il cannocchiale del tenente Dumont, edito da L’Orma editore, Marino Magliani ci racconta la diserzione del tenente Dumont, del soldato Urruti e il capitano Lemoine.
Un erudito, un sognatore e un basco rude, spigoloso. Si sono incontrati durante la campagna d’Egitto.
In quell’inferno di sabbia, smarriti, scoprono l’hascisc. Per questo, il dottor Zomer, attraverso i suoi emissari, si mette sulle loro tracce. Per studiarli, per capire come quella droga – di cui si conosce niente – influisca sui comportamenti umani.
Lemoine, Urruti e Dumont diventano topi in un labirinto smisurato. Osservati a distanza, si immagineranno liberi. Si innamoreranno, si sentiranno vivi.
Marino Magliani è traduttore e scrittore. Si è mosso sempre, sradicato, senza patria. Ha pubblicato molto, eppure è uno scrittore che meriterebbe una fortuna ancora maggiore, un’attenzione che, troppo spesso, i lettori tributano a pagine meno colte e poco profonde.
L’attività del traduttore gli ha conferito la capacità d’indossare il corpo degli altri, la lingua degli altri, oltre ad una padronanza del mezzo letterario davvero invidiabile.
La sua è una prosa precisa, senza un accento di troppo.
Nei suoi paesaggi, nei volti, che pure sono paesaggi, ricorda Peguy.
I rimandi letterari, denotano una cultura assai vasta. Magliani si riferisce sovente a Montale, a Garcia Lorca. Haroldo Conti, Jean Giono.
Quella di Magliani è una scrittura poetica che non risulta stagnante. È questa una storia di avventura e di avventurieri, ma raccontata con il pennello, conservando il tocco leggero, il soffio, del poeta.
Il cannocchiale del tenente Dumont è certamente un romanzo storico, essendo ambientato nel 1800. Inoltre è ricco di descrizioni dettagliate delle armi di quel tempo, delle imbarcazioni.
C’è un passaggio, magari non fondamentale, che non mi ha lasciato, per tutto il resto della lettura.
Ad un certo punto il capitano Lemoine racconta a Dumont della condizione degli schiavi rematori. C’è stato un tempo, racconta, in cui le navi erano trascinate da schiavi cui non era concesso mai il riposo. Mentre remavano gli veniva messo in bocca un biscotto di grano inzuppato. Se stavano male li gettavano a mare; se si fermavano, frustate.
Non meno tremendo il destino degli aguzzini: se uno schiavo scappava, gli tagliavano le orecchie.
Di tutti i libri che uno legge, dopo resta qualcosa. Probabilmente non è quella che, l’autore, avrebbe desiderato restasse, ma per ognuno è diverso. A me, francamente, de Il cannocchiale del tenente Dumont resterà questo: l’idea che, essendo in grado d’immaginare il peggio, di tutto il creato l’uomo è l’unica bestia crudele.
Ogni forma di fuga, dalla droga alla morte procurata, si giustifica con la ribellione, con il rifiuto legittimo di ogni regola e della parola eroe, barbara oltre ogni modo.
Pierangelo Consoli
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Il cannocchiale del tenente Dumont, L’Orma Editore, 2021, pp. 296, euro 20.