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Mario Ferraguti anteprima. Rosa spinacorta

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Mario Ferraguti, abitante e narratore di storie dell’Appenino Parmense, nonché uno tra gli organizzatori del Piccolo Festival di Antropologia della Montagna, è in libreria con il nuovo romanzo Rosa Spinacorta, pubblicato da Exorma Edizioni. Un romanzo che prende spunto da una storia vera per “vestire” quella romanzata. Lo scenario è quello del dopo guerra, nella bassa parmense.

Tecla, orfana accolta e istruita, in segreto, in convento, è stata scelta per il rito della vestizione della Regina, la Madonna della rosa spinacorta. Vestire il Sacro per togliere fisicità, visibilità al corpo di colei che ha in sorte il compito segreto della vestizione della statua della madonna, custodita nuda e lontano dagli sguardi del mondo per tutto il resto dell’anno nell’attesa di apparire ai fedeli solo durante la solenne liturgia. La realtà invece è sorpresa ed il corpo di Tecla è gravido. Si è fatta corpo la protagonista della narrazione e con il suo corpo, insieme a quello della Regina, inizia quel viaggio “capace di miracoli”.

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Tutte le notti, da luna piena a luna piena, la donnadischiena mi prendeva col buio, che nessuno vedesse, per portarmi alla tua camera, la camera inaccessibile della Regina, il nome che ti davo prima di entrare in confidenza. Tutte le notti per tre anni e con l’inferno in tasca, con la sua minaccia di far male, anche molto più male della morte.

Non che io non volessi salire, quella che mi fermava era la paura, tu per me eri in alto, su nel cielo, dietro le nuvole bianche, non riuscivo a pensarti chiusa in una stanza; Regina miracolosa, guai a toccarti, c’era da incenerirsi, guai anche solo a incrociare i tuoi occhi, c’era da accecarsi.

Era da questo che fuggivo, dal pensiero di ritrovarmi insieme a te, due nature di così diversa sostanza, vicine in una stanza buia e segreta a tutti gli altri, quella più in alto della chiesa, appena prima della campana capace, con il suo suono acuto, di rompere le nuvole da tempesta. Io insieme a una divinità, le mie mani che toccano e vestono ciò che si riesce a malapena a immaginare, un corpo capace di miracoli.

Scappavo, mi nascondevo, io non volevo ma la donnadischiena, come un cacciatore, annusava la traccia della mia paura, mi braccava e quando mi stanava non sparava, la sostituiva con una più forte, quella dell’inferno con le scarpe.

Tutte le notti veniva a cercarmi e io a correre, infilarmi nel buio, ma lei nel buio vedeva, le si allargavano le pupille degli occhi come ai gatti. Mi afferrava i capelli e mi trascinava, in mille passi lenti da formica che io contavo a uno a uno, fino a te, là, ferma immobile, in attesa di essere vestita.

Immaginare che avevi bisogno, che in quei momenti eri così debole e fragile da bastare un niente, anche solo uno sguardo, un tarlo a farti male, immaginare che avevi freddo e aspettavi il caldo di un abito, sarebbe stata tutta un’altra cosa. Ma allora non mi passava neanche per la testa, allora sentivo solo la mia paura e non sospettavo potesse esistere una divinità di legno che prova dolore per i morsi dei tarli, trema per il freddo e teme il buio.

In quella stanza, trampolino per il cielo, non ci riuscivo a entrare; sentivo mille passi, vedevo mille occhi, mille rumori di niente e di nessuno, quel posto era proibito anche a don Sergio. Vestire la Madonna, che è femmina, è un onere e un privilegio riservato alle suore.

Sembrava impossibile che io, così debole, sottile e piccola dovessi proteggere lei, attorniata da angeli custodi; io così sola, fragile e senza niente, costretta a difendere lei, a capo di un esercito intero d’argento e metallo; io a far la guardia per la notte a lei, regina del mondo e della luce.

Solo a pensarci mi si stringeva lo stomaco e mi girava la testa fino a cadere a terra nel continuare a ripetermi non sono abbastanza forte, non sono abbastanza grande, io non sono niente.

E lei, la donnadischiena, a strisciarmi la pelle con le unghie, a stringermi le braccia da far venire i lividi e dire che non dovevo, non potevo rifiutare, ero stata scelta. Lei a srotolare l’immagine dell’Apocalisse che teneva in tasca, il drago sputafuoco, le anime bianche e nude con le scarpe che si coprono la faccia mentre bruciano e gridano, a bocca spalancata, il loro tradimento all’universo che come un grande orecchio ascolta e punta il dito.

Continuavo a sentirle quelle anime dannate, urlavano insieme, con una sola voce e mi assaliva la vertigine del vuoto, si apriva un baratro sotto i miei piedi e quando, ormai, stavo per precipitare giù, fino all’inferno dannata insieme a loro, riconoscevo la mano secca della donnadischiena stringere la mia, mi riportava indietro, mi salvava. Allora scoppiavo a piangere e lei si avvicinava fino a soffiarmi il caldo del suo fiato nell’orecchio, piegava il foglio, rimetteva il diavolo, il fuoco, le anime nude con le scarpe, le loro urla in tasca e diceva, come a risolvere tutto, col suo afrore di menta e basilico, t’insegnerò a vestirla.

Per prima si recita la preghiera dell’angelo. Angelo che sei il mio custode, ricordami di essere sempre trasparente; vestire la Madonna è diventare niente, che la Regina è vestita e chi la sveste non esiste.

C’era riuscita, aveva fatto il cambio con la mia paura.

Non conoscevo niente della donnadischiena, ogni volta che l’avvicinavo, per chiederle qualcosa, mi si bloccava la lingua, si asciugava la saliva.

Nei corridoi giravano bisbigli, dicevano si fosse nascosta tra le suore quando, in paese, qualcuno l’aveva apostrofata come strega e le portassero i panni da bollire per togliere il malocchio.

Voci sottili a entrare nelle orecchie e suggerire che, invece, era figlia di girovaghi, con scimmie e orsi ballerini, che l’avevano lasciata in convento, insieme a due pavoni bianchi, con la promessa di tornare a prenderla.

Un piccolo gruppo di suore, infine, tramandava che era stata abbandonata in un fosso da due zingare, dopo averla rubata a una famiglia nobile ed essersi accorte che si trattava di una bambina strana, con un accenno di coda. L’acqua melmosa l’aveva cullata e trascinata in Po, fino a raggiungere una secca dove gli animali carnivori, chissà per quale mistero, non si erano azzardati a divorarla.

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