Almeno una volta al mese vado a Sanremo, perché sto curando per conto di Rai Teche – insieme a Dario Salvatori – una mostra al Santa Tecla sulle settanta edizioni del Festival. Ero andato al Festival un’unica volta nel 2001, per conto di Radio2. Per me non fu un’esperienza particolarmente entusiasmante, ma tra i tanti ricordi di quella settimana, poiché alloggio sempre all’Hotel Nazionale, che si trova a due passi dal Casinò, oggi ne è riaffiorato uno abbastanza pittoresco e memorabile. Una sera mi sganciai dai colleghi coi quali trascorrevo le giornate, e decisi di andare da solo al Casinò. A un grande tavolo vidi Mario Merola che giocava alla roulette. Stava in silenzio e aveva l’aria cupa, truce, infastidita. Presi una sedia e mi misi discretamente al suo fianco per osservarlo da vicino. Mi diede un’occhiata fugace e mi trattò come una mosca molesta ma trascurabile. Io invece lo guardavo in estasi – per me Mario Merola era una specie di tiranno mitologico della sceneggiata napoletana. Ogni tanto tirava fuori rotoli di soldi raccolti in un elastico e li gettava sul tavolo con un gesto sprezzante del braccio. Lo osservai a lungo, ma non ebbi il coraggio di rivolgergli la parola – ricordo che non sorrise mai, in quelle due ore di vicinanza. Le uniche parole che diceva erano riferite ai soldi: “‘Nu meliune… Cient’ mila lir’… Agg’ vint'”. Poi, dopo essersi assopito nel collo grasso e nel ventre enorme, rinvenne di colpo e, quasi senza salutare, andò via a passo lento, greve, le mani incrociate dietro la schiena – senza felicità.