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MARIO SCHIANI INEDITO. QUEL DOLCE NOME

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Mario Schiani

Una scrittura che ha l’eco della letteratura antica, aulica ma non leziosa; un romanzo che ha il Diavolo come protagonista in uno dei rarissimi casi nel quale non è l’orrore a spaventarci – non si tratta di un thriller metafisico – perché all’orrore ci siamo abituati sminuendolo cambiando una vocale pur di trasformarlo in un errore. Una illusione che è diventato il nostro pane quotidiano e che Mario Schiani ci racconta nel romanzo Quel dolce nome (edito dalla piccola quanto eccellente nuova casa editrice Giovane Holden, pagg. 240, euro 14): un libro che è una radiografia, non solo perché per lo più ambientato tra le corsie di un ospedale, sul nostro quotidiano. Schiani – tornato alla narrativa dopo l’esordio del 2009 con La banda delle quattro strade (edito da Salani) – dimostra, sempre attraverso lo sguardo narrativo dell’ironia e delle frasi concise, sincopate ma che lasciano respiro al lettore alternando riflessione e sorriso, immedesimazione e creatività, compie il più bel gesto che può compiere oggi uno scrittore, che è forse il futuro della scrittura perché è da lì che è partita: raccontare per spingerci a raccontare. Mentre lo leggiamo immaginiamo nuove storie, nuove avventure: ogni frase ne regala un’altra alla nostra mente. E non per noia ma perché il romanzo è immaginifico: ha una trama solida che vede un uomo, un padre, un figlio che si ritrova in una corsia e tutti i degenti, per le dicerie da corridoio lo scambiano per il Diavolo e così ogni notte c’è una ilare processione di penitenti dell’ultimo minuto. Una commedia degli errori ma anticamera degli orrori: la metafora di quella provincia che ognuno di noi si porta nell’animo perché non è un luogo natio ma una dimensione dell’anima. Una provincia che può essere ovunque, anche nel cuore di una metropoli perché è in noi, nel piccolo orticello che ognuno di noi coltiva pur di sentirsi al riparo apparente del vento della vita.

Ed è anche la storia di un figlio e del suo (non) rapporto col padre: il suo dialogo con l’assenza, il suo dialogo con i ricordi, maledetti benedetti ricordi di chiunque abbia perso un genitore da giovane. Commovente, non scontato, strappa spesso lacrime e ci porta, mentre leggiamo, al dolore più intenso che vive nel mentre più solare di una risata.
Quando tutti ti dicono “come ati benE” e dentro ti senti come una quercia che sanguina foglie: tutti vedono il verde, nessuno immagina più la sofferenza per far nascere quelle foglie e la consapevolezza che diventeranno morte. Giusto il ciclo di una stagione ma giusto anche il tempo perché gli stessi che gridavano alla bellezza sfuggano alla morte.
Perché alla fine è anche un grande grande romanzo sull’invidia e su come vive chi si blocca davanti al parlare degli altri. Capita a tutti noi. Almeno a chi fa qualcosa davvero. Che alla fine, poi, non sono poi così tanti.

Gian Paolo Serino

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Il medico tacque e lui decise di approfittarne.
Perché non mi lascia riposare?” domandò col tono di chi perora una causa disperata. “Io sono un paziente qualunque, nonostante quel che lei crede. Non saprei come aiutarla.”
Aiutarmi?” riprese l’altro, “Vuole scherzare? Faccia attenzione, piuttosto: quello che sto per dirle richiede un minimo di cervello per essere compreso. Lei saprà che il tempo è una tragedia, infatti condanna a prematura scomparsa quanto vorremmo immortale. Si guardi intorno: tutto ciò che vede, e anche ciò che non vede, è opera del tempo. È il tempo ad aver ingrossato la sua prostata e ad aver rimbecillito il prete; perfino il giovane laggiù, che ha ancora l’impressione di poter sconfiggere l’inesorabilità dei secondi, prima o poi tornerà qui, in ospedale, perché l’opera di distruzione dei suoi organi venga completata. Ma il danno del tempo si produce in noi ancor prima che l’attesa sia finita, prima che la teoria degli istanti sia giunta agli sgoccioli. Questo, il tempo lo dichiara fin dall’inizio. Ti prenderò, e ti punirò, tanto più mi avrai trattato male.”
Era certo notte fonda. Il silenzio e la luce blu si univano nella stanza in una sospesa commistione di attesa e lontananza. Dai letti non saliva un suono, se non il russare esitante del vecchio prete.
Non c’è che un modo per liberarsi del tempo” continuava il medico nel tono più sommesso al quale, fino a quel momento, si fosse attenuto. “Quando ci presenta il conto dobbiamo essere pronti a girarlo ad altri, perché lo paghino al posto nostro. Ecco perché amo tanto fare la vittima. È una giustificazione più che plausibile davanti a ogni sorta di tempo esistente: perduto, sprecato, sottovalutato, rincorso, spronato, disatteso. Non è mai colpa mia se il tempo va senza che io abbia potuto soddisfarlo: è sempre – sempre, sottolineo – colpa degli altri. I colleghi complottano per strangolare le mie ambizioni? Ebbene, chi potrà mai accusarmi di aver perduto tempo senza riuscire a far carriera? Davvero potrete applicarmi il marchio del fallimento quando, con tutta evidenza, sono stato depredato dei miei diritti, impedito ad avanzare, tradito nella buonafede? Il tempo potrà mai lamentarsi se non sono stato io a sprecarlo, ma altri lo hanno sprecato per me? Provi anche lei, le farebbe bene.”
Il medico sembrava ora disposto a mostrare di sé un lato bonario, addirittura conciliante.
D’accordo, ci penserò” si provò a blandirlo lui.
Non basta. Si lasci andare…” lo esortò l’altro, “Nulla dipende da me o da lei, tutto è orchestrato da terzi. Se ci pensa, non può che essere così. Come spiega il fatto che la sua volontà – anche la mia, si intende – sia uno strumento così debole? Un sottile scalpello con il quale, secondo la misura sociale del successo, lei sarebbe tenuto a ridurre in briciole una montagna – che dico? – l’intera catena dell’Himalaya. È possibile che alcuni, e solo alcuni, dispongano di una volontà in grado di compiere qualsiasi impresa, di stupire il mondo, di suscitare unanime ammirazione? Io non lo credo, ed è questa la prova definitiva, filosofica, che gli altri uniscono gli sforzi, stringono alleanze occulte e, misurando infine il risultato del loro sforzo collettivo contro quello molto più modesto della fatica individuale, sanciscono la nostra disfatta e, con finta indifferenza, diagnosticano la nostra impotenza.”
Lui, di nuovo intimorito dal contegno del medico, tentò un sorriso arrendevole e tossicchiò imbarazzato.
Mio padre ha del tempo un concetto ben differente” proseguì il dottore, ignorandolo. “Ogni secondo trascorso senza che io mi sia avvicinato alle sue ambizioni è per lui una goccia che precipita nel pozzo della mia colpa. Vorrebbe che il mio tempo, e il suo di conseguenza, si svolgesse come evoluzione, progresso, e non come perdita e annullamento. Io non posso accontentarlo, e in fondo non voglio. Mi accusa di essere un perdigiorno, un inetto. Grida alla mia impotenza e nello stesso tempo mi disprezza in quanto sensuale. Non potrebbe sbagliare di più.”

Mario Schiani

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