Con una scelta controcorrente – coraggiosa, di questi tempi – rinasce la storica casa editrice Vallecchi di Firenze e immette sul mercato la ristampa di un titolo già nel proprio catalogo e certamente significativo, Il figlio del farmacista, prima opera di narrativa di Mario Tobino uscita dopo tre raccolte di poesia.
Pubblicato nel 1942 e ora riproposto in un’edizione particolarmente curata, è questo un volumetto di indubbio interesse, ampiamente autobiografico, autofiction ante litteram, che include in nuce le tematiche sempre care allo scrittore: le storie dei singoli, della psicanalisi, la vita in provincia osservata con attenzione, con sguardo clinico che mai perde l’umano.
Il figlio del farmacista è Mario Tobino studente, che in attesa di trasferirsi a Bologna per frequentare l’università aiuta il padre nell’attività di famiglia a Viareggio.
Le ore passate dietro il bancone a studiare e ripetere con minore perizia i gesti misurati del genitore, ritualizzati, dal lavaggio delle bottiglie alla preparazione dei farmaci che conterranno, si fanno per Tobino esercizio propedeutico per l’attività futura di psichiatra di ampia fama: pare entri un’umanità varia dalla porta di quella farmacia e i clienti che si avvicendano presentano, al suo occhio allenato, comportamenti degni di nota. Spesso interessanti, talora irritanti, a volte irrispettosi, come le clienti impellicciate che, preso un bicchiere dal banco, versano dell’acqua in terra per dare da bere al cane, poi escono senza salutare, lasciandosi alle spalle un disordine che andrà sistemato.
Episodi che mettono alla prova lo spirito giovane dello scrittore, impaziente di proiettarsi verso un domani di studio, affrancamento e, in qualche misura, di riscatto: in questo libro difatti racconta in terza persona (quasi cercasse uno sguardo non coinvolto, più lucido) anche del difficile adattarsi della famiglia di origine proveniente dalla Liguria a un luogo nuovo, Viareggio, che accoglie i Tobino con non poca diffidenza. Immotivata, in verità: il padre, figura tradizionale di buon capofamiglia, generoso di tempo e cure per ogni cliente, è uomo di rara correttezza, che destina tutti i proventi a costruire una casa di carne, sudata, giusto al piano superiore della farmacia, appianando così ogni confine tra vita personale e bottega, rendendosi sempre disponibile.
Ci vorrà del tempo perché ogni diffidenza scemi.
Nel frattempo Tobino è pronto a raccontare del suo passaggio in città, dove con sguardo limpido osserva tutto e ne scrive: con grazia lieve, una scrittura pura e urgente, non ancora quella della maturità de Le libere donne di Magliano, o de Il clandestino, vincitore dello Strega o ancora di Per le antiche scale con cui si aggiudicò il Campiello prima del Viareggio per La bella degli specchi – ancora diseguale fra un capitolo e l’altro eppure preziosa nella lingua curata, classica.
Pezzi di indubbia bella prosa, che suggellano per Tobino un apparente momento di ripensamento della poesia di cui si era nutrito fino ad allora:
Che alcuni giovani scrivano le poesie, anche questo è un bel mistero. Potrebbero sorridere a chi gli vuol bene, amare il proprio mestiere, passeggiare contenti per le vie dei loro paesi, essere cittadini benvoluti e rispettati, e, invece, per questa poesia, occhi cerchiati di febbrile amore, gioia smodata e tristezze ignote, smanie di non si sa che cosa, sogni che si imbrogliano […* è la poesia un male peggiore del cancro, peggio della tisi, che almeno di queste malattie si muore, e invece della poesia si soffre soltanto, a meno che uno, rarissimo su milioni, non sia riamato dalla poesia e allora a questo felice e miracoloso mortale la poesia, innamorata, dà fiori, sorrisi, […] ed anche il dolore è per costui gioia, perché il dolore del poeta fa canto.
Un lirismo da cui Tobino a ben vedere mai si distaccherà, neanche nelle prose dedicate alla sua attività di direttore – per quarant’anni – del manicomio di Maggiano, nei pressi di Lucca (a cui dedica la chiusa del libro) e di cui anzi va perennemente in cerca e si sfama, come osserva Giulio Ferroni nell’introduzione, che definisce opportunamente il ritrarsi dello scrittore in un luogo duro ma riparato come l’appartarsi in attesa della poesia.
In qualunque forma essa si presenti, compresa la follia.
Una scrittura che va riscoperta.