Paesenovo è una “terra di mezzo” tra il Friuli e il Veneto, che i lettori di Massimiliano Santarossa hanno già conosciuto in “Pane e ferro”, fortunatissima sintesi del Novecento vissuto dalle classi popolari nelle terre che il secolo breve ha trasformato da contadine a industriali. Quel testo potente porta il lettore a esplorare i motivi dell’eclissi di una civiltà millenaria e l’approdo, attraverso due guerre mondiali, a una modernità difficile che illude e sradica. L’importante riscontro di pubblico e di critica dimostra quanto profondo sia stato l’effetto-rispecchiamento che l’autore è riuscito a ottenere, con una storia che potrebbe davvero essere quella di una qualunque delle nostre famiglie.
Visto che “metodo che vince non si cambia”, a tre anni di distanza quella di Paesenovo diventa una saga, grazie a “Gelsi e sangue” (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 300 pagine, euro 18), in questi giorni nelle librerie, romanzo storico che traccia il quadro dell’Ottocento in Friuli e in Veneto contraddistinto da un realismo senza infingimenti. Non si fanno sconti alla durezza e alla miseria del destino degli umili abitanti di queste terre, “figli della zolla e della fame”, ma la forza con cui sono ritratte è tale da assumere i connotati di un vero e proprio “epos”. Epico è anche il nome della voce narrante principale (Ettore) che riavvolge il nastro di un secolo lunghissimo: quello che va dall’arrivo di Napoleone e dal tramonto della Serenissima nel 1797 fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la notte del 23 maggio 1915. Spingersi così lontano nel tempo poteva essere un’operazione rischiosa, ma il respiro della scrittura e la densità suggestiva della vicenda mostrano che l’autore ha scelto il tempo giusto.
Questo testo è infatti l’ideale ultimo movimento di una “sinfonia degli Ultimi” iniziata molto tempo fa, con le “Storie dal fondo” e la “Gioventù d’asfalto” che svelarono al pubblico la sua cifra alle soglie degli anni Dieci. Da allora Santarossa ha sviluppato quest’indagine sul disagio della nostra civiltà anche in altre direzioni: una psicologica e metafisica che indaga lo spirito del tempo in lavori come “Viaggio nella notte”, “Il male” e “Metropoli”; l’altra più sociologica e culturale, con opere discusse e corrosive come “Padania” e “A guardare il Nord”. Infine, il passaggio dal Presente al Passato, con un romanzo storico che mostra a ritroso come il XX secolo abbia fatto di noi ciò che siamo.
Questo passo ulteriore trasforma Santarossa nel cantore di un’epoca che viene aggredita di petto, prima di tutto a livello linguistico. Come i grandi narratori realisti da Balzac a Celine, cerca di assumere il punto di vista di chi racconta a partire dal suo modo di parlare, utilizzando il gergo, in francese l’“argot”, distante dalla prosa canonica, ma estremamente efficace a livello di mimesi. La resistenza all’avvenire della comunità di Paesenovo, così come avviene per la Aci Trezza di Verga, è oggetto di un racconto collettivo, che apre le porte della storia a generazioni di donne e uomini che hanno piegato la schiena sui campi e nei primi opifici che hanno trasformato un paesaggio rimasto uguale per millenni, dove il tempo era scandito dalle stagioni e dalla religiosità popolare.
In quell’orizzonte di continuità secolare l’Ottocento segna comunque una cesura che per la prima volta vede modificarsi un orizzonte fatto di campi e boschi a perdita d’occhio. Le pagine di Santarossa ci accompagnano alla scoperta dell’arrivo del treno, vedendolo con la miscela di meraviglia e sconcerto degli occhi degli uomini di allora; oppure all’avvento dell’illuminazione pubblica a gas, altro moderno ritrovato che pareva incredibile. Eppure “la luce arrivò prima dell’Italia”, rievocano gli abitanti di Paesenovo quando raccontano gli anni della transizione dalla fase asburgica del Lombardo-Veneto. In particolare, sono del tutto gustose – ancor più perché storicamente fondate – le pagine sul Plebiscito, che per i neosudditi del Regno d’Italia nel 1866 fu qualcosa di più simile a una sagra paesana che a un autentico esercizio di vita democratica.
A parte il tentativo, per mezzo secolo in buona parte vano, di “costringere all’italiano” gente che parlava friulano o veneto, nulla cambiava. I flagelli di sempre rimanevano sotto ogni bandiera. Le malattie come il colera, la mortalità infantile, l’abbandono degli “esposti” non avevano tregua. Alla fame si rispondeva con la disciplina del lavoro: la famiglia di Ettore scatta sull’attenti all’appello mattutino per recarsi nei campi, e ha un tale affetto per quegli animali domestici di cui ha disperatamente bisogno da chiamarli per nome e trattarli come parenti.
Dopo mille anni di mezzadria qualcosa però andava mutando, e come sempre il vero motore del cambiamento – silenzioso ma inesorabile – erano le donne. Quelle stesse che lavoravano dipanando il filo dei bozzoli nell’acqua bollente delle vasche delle filande che proliferavano in Friuli. Sulle loro spalle si caricava il fardello di uno sviluppo lento che coesisteva con fenomeni atavici come emigrazione e contrabbando, che la storiografia paludata definisce “piaghe”, ma altro non erano che strategie per sopravvivere.
Nessuna carta geografica comprende Paesenovo, ma la sua storia è quella di tutti i nostri antenati. E le pagine di “Gelsi e sangue” non sono che il diario di famiglia di tutti i nostri avi troppo poveri di mezzi per lasciarne uno, ma troppo ricchi di umanità perché non arrivi un Santarossa a riscattarne la dignità.
Walter Tomada