Dopo aver festeggiato i 20 anni di attività di Satisfiction insieme a scrittori come Enrico Remmert, Stephen King, Vitaliano Trevisan, Raul Montanari ed Enrique Vila Matas, in occasione dei 22 annni della rivista pubblichiamo i racconti di autori che da anni contribuiscono a creare Satisfiction.
«Esiste l’Italia… non gli italiani.»
(Pier Paolo Pasolini, “Lettere luterane”)
Quattro treni, otto ore, da Paesenovo a Milano, sola metropoli italiana, madonnina in cielo, culi delle femmine in terra, sguardi bassi e scuri dei maschi per le strade.
“Sola” inteso come unica, ma ancor di più come “abbandonata”: gettata qui, nel sud dell’Europa.
C’andai, né più né meno, con lo stesso slancio che negli anni Settanta avevano milioni d’italiani: raggiungere Milano per levarsi di torno il passato: la terra, i piccoli paesi, la profonda provincia, esser meno differenti, e meno poveri; pia illusione!
Tutto quel cemento e asfalto e vetro e ferro, già dal primo passo di fuori dal marmo della grande stazione dei treni, mi parve tradursi nello sforzo sovrumano d’allontanare la verità dal luogo, posto esagerato e inedito, facce violente e antiche; m’accolsero, immediati, i ghigni dai denti affilati, e non per fame, mica in città, la gente, ti mostrava la pancia vuota, il bisogno e il muso triste; ridere, “Qui c’è da ridere”, avvertivano i ghigni, musi come pietra, e pure le gambe delle belle signore parlavano, scattando e volando via. Riuscivo mai a toccarla, ’sta bellezza!
Mi bastò qualche chilometro nello stomaco della Grande Città del Nord, per accorgermi ch’era fatta di strade piangenti, senza tregua, sopra tutti; “Avrò un bel tribolare, qui”, disse la mia testa al cuore; “Avrò un bel patire, qui”, aggiunse il mio stomaco ai nervi. Il cielo, sopra Milano, era un pavimento grigio e lucido, ben saldo sui tetti dei palazzi, un vasto coperchio per le paure della gente, a milioni; “Noi milanesi teniamo l’emozioni di dentro”, sembravano ripetere, loro, con quei denti bianchi di dentifricio e serrati, vestiti azzimati. “A tacere i sentimenti, lamentarsi mai, siamo qui per lavorare, evviva la Madunina!”, urlavano dalle pupille, elettriche, il primo come l’ultimo, lo smilzo come il lardoso. M’accorsi d’esser da subito fuor di statistica.
Che spettacolo, la città, non si vedeva neanche la fine, e che alta! T’accoglieva in piedi, Milano!
Il cielo color dei denti, bocca spalancata sulle teste di mi- lioni di milanesi, e su di me, iniziò a scherzare rovesciando acqua e vento, a inondarci d’istinto, era il mal di stomaco delle nubi! Presi a camminare a filo dei palazzi, edilizia po- polare di cent’anni prima, con l’Italia bambina; avanzavo nel grigiore del giorno che voltava alla sera; l’asfalto di viale Andrea Doria, dalla Stazione a piazzale Loreto, era lucido di pioggia e scintillante dei fari gialli anteriori e rossi posteriori delle utilitarie, migliaia di bestie di metallo in colonna, avanti verso uffici, fabbriche, case. I marciapiedi spaccati dai riflessi delle luci dei palazzi, a brillar di tristezza nelle pozze d’acqua piovana, gli alberi tremanti al vento con le oramai poche foglie, barcollanti di stanchezza, decise a staccarsi ap- pena possibile, nell’ultimo volo. Autunno milanese! Italiano! L’autunno umano!
«Dopo la piazza del Duce a testa in giù, svolta a destra, altri cento metri e trovi l’ostello», erano le sole indicazioni passatemi dal barbone, comunista si vede, ché rideva, appena misi piede giù dal treno, sceso nel Nuovo Mondo.
Eran cominciati oramai da ventiquattro mesi, settecentotrenta giorni suonati, gli anni Ottanta; ma lì, sotto il cielo di pioggia del pomeriggio che andava a finire, s’annunciava nel mio futuro prossimo una notte fredda e inospitale; la Milano da bere dell’amaro Ramazzotti sarebbe arrivata tre anni più tardi. Era ancora il tempo degli immigrati dal sud, e dal Veneto, e dal Friuli, il tempo dei poveri in cerca d’una qualche fortuna. Il tempo dei cercalavoro tuteblu!
Entrando nel dormitorio di via Sansovino, palazzetto comunale affittato sottocosto e utile ai primi arrivi, ai barboni seriali e ai disagiati della vita, e a chi come me era in cerca, senza spinta né volontà, d’un lavoro nell’ennesima fabbrica ai margini della metropoli, provai a familiarizzare con il primo essere umano al quale rivolgevo per davvero parola, dopo il senzatetto della stazione, un donnone con il cartellino ap- peso sull’enorme seno sinistro, Segretaria, scritto a mano.
«Avrei bisogno d’una stanza, se c’è ancora…», provai a domandarle, senza poter finire la frase.
«Su al terzo piano, stanza 303, paghi subito, immediato, una settimana anticipata, poi ogni lunedì, altrimenti sei fuori, asciugamani e lenzuola li trovi puliti, poi li lavi da te, sotto c’è la lavanderia, al tuo piano il bagno in comune; questo è tutto, buonanotte», disse sbattendo la chiave sul tavolo marrone, finto mogano, ritirando di scatto la mano grassa, smalto rosso su unghie scheggiate dai denti.
Ad attendermi, i miei compagni d’avventura: letto poggiato al muro di destra, stazza cadavere, quattro pareti tinta panna, tavolo bianco sotto l’unica finestrella, sedia di ferro impiallacciata laminato verde acqua. “Benvenuto bellezza, ecco Milano”, pensai, senza spender parola, nel silenzio e nel freddo, osservando di là dal vetro il cielo scuro e i fari gialli dei lampioni lontani, battuti dalla pioggia.
Mi misi a letto, piegai le gambe fin sullo stomaco come facevo da bambino e m’abbracciai, il fiato e il cuore in un solo spavento. Tremavo di dentro e di fuori, per il gelo, e per il passaggio del tram sotto la finestra, tre piani giù. Mi rialzai. Ero curioso della morte come della vita. Da dietro il vetro potevo osservare le facce appoggiate ai finestrini del vagone: spossate, livide, immerse nel fiato caldo e nella condensa, pesci alle pareti d’un metallico acquario ambulante.
Tornai sotto la coperta, su quella visione chiusi gl’occhi; di fuori, nella notte, la pioggia insisteva a inondare le strade di Milano.