Dopo il successo de L’Americano, bestseller da 300.000 copie in Cina che diventerà una serie tv, Massimiliano Virgilio torna con il romanzo Le creature – da domani in libreria -, edito da Rizzoli, che ha concesso a Satisfiction un estratto in esclusiva.
A fare da sfondo alla narrazione è la periferia di Napoli dove in una casa-famiglia illegale trovano dimora i figli dei clandestini che possono pagare perché qualcuno se ne occupi. Qui si intrecciano le storie di tutti i giovanissimi invisibili del romanzo, “ragazzi di vita” del terzo millennio calati in un tempo instabile e dilaniato; sono figli di migranti irregolari che appaiono come “fiori senza radici” e sono disposti a tutto per prendersi la loro terra salvandosi dalla miseria e dalla violenza che li circondano.
Protagonista della storia è Han, un adolescente cinese “pezzotto” cioè taroccato, arrangiato, nato in Italia ma invisibile, figlio di genitori separati, che in cinese sa dire solo “ciao”. Si innamora di Nina, una “sbavatura di inaudita meraviglia su quel quadro di cemento e spazzatura” che per un brutto incidente si ritrova ad essere “storta” e di conseguenza chiusa in un pesante busto per una frattura alla spina dorsale. Poi ci sono Dimitri l’ucraino e Ismail il senegalese, che gli insegnano a rubare magliette di Messi al mercato di Poggioreale e tutti sono figli di nessuno, fantasmi che nessuno vede.
Quando Manuel, il figlio della Leonessa – la donna che gestisce la casa-famiglia – uscirà dal carcere e cercherà di trascinare Han in un vortice di violenza senza uscita, nel cuore del ragazzo si risveglierà il desiderio di salvarsi. Ma non può esserci salvezza che non sia condivisa, anche se il prezzo da pagare rischierà di essere troppo alto.
Massimiliano Virgilio con questo nuovo romanzo che non fa sconti regala al lettore, attraverso un linguaggio crudo e diretto, il racconto di uno spaccato di vita capace di toccare le corde del cuore, senza tralasciare un certo lirismo che fuoriuscendo dalle pagine provoca nel lettore un inevitabile senso di struggimento per Han e tutti gli altri invisibili come lui, creature pronte a crescere ad ogni costo.
Silvia Castellani
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Mo
Maruzzella Maruzzè…
T’è miso dinto all’uocchie ’o mare…
E m’è miso ’mpietto a me
’Nu dispiacere…
Il nome di suo padre era Mo, ma quelli del Vini e Oli lo pronunciavano «mo», che significava adesso, ora. Ciao, Mo. Come stai, Mo? Questo è tuo figlio, Mo? Suonava alla stessa maniera di Te ne stai andando mo? Mo è arrivato il momento… E mo chi la sente tua moglie?
Per forza di cose, crescendo sotto il vulcano, Han aveva imparato ad associare la figura di suo padre a quella di un tempo immanente e alla solerzia che quel nome portava con sé. Per non parlare di quando qualcuno lo usava due volte nella stessa frase: Devi scendere da quella botte mo, Mo! Il nome di suo padre ripetuto: un’ansia pazzesca.
Eppure Mo non amava la fretta. Al contrario, era un tipo compassato, a cui piaceva prendersela comoda e gustarsi ogni sigaretta fino alla cicca, cantando ad alta voce le canzoni napoletane.
Le intonava di continuo, mentre sgobbava sul legno, oppure facendosi la barba allo specchio. Lavorava e cantava, si radeva e cantava, e se non cantava, fischiava. Spesso iniziava a parole e proseguiva fischiando, perché non ricordava più le strofe, ma soltanto la melodia, mentre Han – all’epoca avrà avuto sette o otto anni – lo ammirava incantato. A Mo piaceva il dialetto e per questo sul vulcano gli volevano tutti bene. Cantaci una canzone, Mo! La sai ’O sole mio? Mo, canta qualcosa mo mo!
’Stu core me faje sbattere
Cchiù forte ’e ll’onne
quanno ’o cielo è scuro…
«Liu!» Quella mattina Han vide il faccione di suo padre avvolto nella schiuma da barba emergere da una nuvola di fumo e reclamare a gran voce la presenza di sua moglie. «Liu!» ripeté. «Perché non portiamo il ragazzo al mare, Liu?» disse Mo vedendola apparire sull’uscio del bagno. Agitò il rasoio nel lavandino pieno d’acqua, lo sistemò sulla mensola sotto lo specchio e afferrò la sigaretta accesa dal posacenere. «Che ne pensi? Non senti caldo, Liu?»
Han e sua madre si scambiarono un’occhiata perplessa. «Dici sul serio?» indicò lei nel corridoio. Lo scheletro di una libreria a cui suo marito stava lavorando da settimane lo attendeva lì fuori. «Non devi consegnarla domani?»
«Uff!» sorrise suo padre. «Voi dello Zhejiang!» si mise a canzonarla Mo. «Sempre con lo sguardo rivolto alla sofferenza, mai alle vacanze!» Le cinse i fianchi con le braccia possenti da falegname, lei finse di ribellarsi. Scoppiarono a ridere.
Dopo ogni litigio ripetevano sempre lo stesso copione. Si tenevano il muso per un paio di giorni, poi a suo padre saltava in mente qualcosa, un’idea brillante che a volte realizzava e a volte no, e il gioco era fatto. Almeno fino al prossimo scossone. «Dài…» le mormorò lui in un orecchio. «Ormai ho finito. E poi non resisto… andiamocene al mare!»
«Dove vuoi andare?» Liu si slacciò dalla presa. Non voleva che Han assistesse alle loro smancerie.
Mo tirò le sigarette fuori dal taschino della camicia e ne accese una con il suo Zippo antivento. Adorava quell’accendino. «Da qualche parte dove posso insegnare al ragazzo ad andare sott’acqua come un pesce.» Si rivolse a Han. «Che ne dici? Pensi che ce ne possiamo andare al mare per un giorno e lasciare la muntagna da sola?» Gli strizzò l’occhio. «O erutterà proprio oggi?»
Han sorrise. Prima di allora non era mai stato al mare.
Spesso lo aveva osservato dall’alto, dalla cresta del Vesuvio, e un paio di volte più da vicino, dai binari del treno. In un’occasione, era quasi arrivato ad affondare i piedi nella sabbia. Avevano bucato. Mo si era fermato per cambiare la gomma e lui ne aveva approfittato per raggiungere il punto dove la strada finiva nella spiaggia.
«Han? Dove te ne vai?» lo aveva bloccato suo padre, spegnendo una cicca col tacco della scarpa. «È pericoloso!»
Così nemmeno in quell’occasione aveva visto il mare da vicino. Più tardi però era stato nel Vini e Oli dove ogni tanto suo padre andava a farsi un bicchiere e dove Han era costretto ad aspettare in un angolo per ore.
Quel posto non gli piaceva. Era pieno di ubriaconi puzzolenti che sputavano per terra, ripetevano parolacce e a volte si picchiavano, eppure stravedevano per Mo. Un collega di sbronze con gli occhi a mandorla, un artista del legno che conosceva l’italiano meglio di chiunque altro sul vulcano, era quanto di più esotico le loro giornate potessero immaginare. Questo è tuo figlio, Mo? Dài, cantaci una canzone, Mo! Vedendolo sopraggiungere, quella pletora di alcolizzati si calmava e tutti facevano a gara per insegnargli le parolacce in dialetto. Che Mo fingeva di non conoscere.
«Strunz’, Mo. Dici strunz’.» E suo padre ripeteva per allietarli: «’A bucchina ’e mammeta». E quelli, tracannando il vino, quasi si strozzavano dal ridere. «Sei troppo forte, Mo, ma questo davvero è tuo figlio? Perché se ne sta sempre zitto?»
«Sta in pensiero per sua madre» aveva risposto suo padre quella volta dopo aver bucato la gomma, sempre con l’aria bonaria che usava con gli italiani. «Ci sta aspettando per cena… infatti adesso ce ne andiamo, vero, Han?» Si era girato verso il centro della sala. «Voialtri salutatemi le vostre mogli quando tornate a casa!»
«Va bene, Mo» si era intromesso il garzone del Vini e Oli. Stava riempiendo una bottiglia di plastica dalla botte di Lacryma Christi. «Mo ve ne andate. Prima però un altro bicchiere, ok?»
«Voialtri… Mo ha detto “voialtri”…» aveva ridacchiato un altro. «Ma ci pensate? Conosciamo un cinese che parla come Dante Alighieri!»
Quelli che più di tutti attiravano l’attenzione di Han erano gli ubriaconi che se ne stavano seduti in disparte a fissare il pavimento incrostato di zibibbo. Avevano la barba ispida e bianca, al contrario di suo padre che si radeva ogni giorno.
«Il mio è un trucco» gli aveva ripetuto lui, guidando verso casa. «Così tua madre non mi rimprovera se a volte puzzo un po’ di vino…»
«Conosci un sacco di trucchi, papà.»
«Di’ la verità.» Aveva svoltato verso il sentiero che portava a casa. «Sono o non sono un mago con le parolacce? Hai visto quelli come si scompisciavano?»
«Scompi… che?»
«Scompisciavano. Significa che li faccio ridere, che gli sto simpatico. È così che devi fare con loro. Devi imparare le loro parolacce, devi dire che il loro cibo è più buono e che il loro sole è più caldo. Solo così ti accetteranno. Non farti illusioni. Per un po’ puoi fargli dimenticare i tuoi occhi a mandorla, ma prima o poi ti guarderanno e si ricorderanno che non sei uno di loro. A quel punto, dovrai venire allo scoperto. E dovrai farlo con tutta la forza e l’intelligenza a tua disposizione. Adesso hai capito?»
Han aveva annuito. «È per questo che devo parlare sempre in italiano. Perché così quelli si scompisciano?»
Suo padre aveva sorriso. «Sì, anche per quello…»
La verità era che sua madre lo capiva all’istante se Mo aveva bevuto, e per questo spesso litigavano. A volte, dopo l’ennesima scenata, suo padre se ne andava sbattendo la porta e in più di un’occasione era rientrato a casa soltanto la mattina dopo. Si chiudeva nel suo camper e si metteva al lavoro senza rivolgere la parola a nessuno. «Un ubriacone senza la barba resta sempre un ubriacone» gli aveva detto sua madre quel giorno.
«Ma papà non puzza di vino» si era opposto Han.
«Invece sì. Devi sentirlo certe volte quando mi entra nel letto.»
Un paio di mesi dopo quell’ultimo episodio, la puzza di Mo si era trasformata – non più di vino, ma di donne – e per questo le loro litigate erano diventate più frequenti e violente. Ormai non si contavano più le occasioni in cui Mo se ne andava via di casa per giorni, o settimane, finché ritornava e tutto ricominciava daccapo. I due giorni canonici di musi lunghi, la brillante idea per farsi perdonare, le smancerie, Maruzzella, gli abbracci e le risate.
«È vero che non ci vai più al Vini e Oli, papà?» gli aveva chiesto Han dopo l’ennesima bufera.
«Sì, è vero. Quei vecchi ubriaconi mi hanno rotto. E poi non sono mai stato un vero bevitore, io…» Si era passato una mano sulla guancia liscia. «Tocca qua… Secondo te un ubriacone si fa la barba così?»
Han lo aveva guardato con ammirazione, un giorno anche lui si sarebbe tolto la barba alla maniera perfetta di Mo. «Però forse per la mamma era meglio quando ci andavi…»
Suo padre gli aveva scompigliato i capelli con la mano. «Non lo so, può darsi. Non avevo mai visto la faccenda sotto questo punto di vista. Comunque da oggi non litigheremo mai più. Te lo prometto.»
«Lo hai già promesso il mese scorso.»
«A me serve farti questa promessa. È l’unico modo che ho per farcela.»
«Fare che?»
Mo si era acceso una sigaretta e in tono serio gli aveva detto: «Sopravvivere, figliolo. Sopravvivere».
Primma me dice «sì»,
po’, doce doce, me faje muri’
Maruzzella Maruzzè…
Quella mattina al mare ci arrivarono in autobus, ma scesero alla fermata sbagliata. Tuttavia non gli importava, perché dopo ogni rappacificazione erano sempre felici di uscire, qualsiasi cosa accadesse. Suo padre avvicinò una ragazza ferma sul ciglio della strada e le chiese dove fosse la spiaggia. «Che cos’hai fatto, Mo?» lo rimproverò Liu qualche metro più avanti. Han si mise in ascolto. «Che c’è? Che cosa ho combinato adesso?»
«Hai visto a chi lo hai chiesto?»
«E allora?» sorrise. «Chi meglio di una di quelle conosce la strada giusta?»
Attraversarono Castel Volturno a piedi. Superarono il fronte di strade e villini che digradavano verso il mare, poi la strada andò in piano e si inoltrarono lungo la darsena di Villaggio Coppola, finché giunsero al centro di una piazza che sembrava abbandonata, tra palazzi alti e fatiscenti che ostruivano la vista.
«E il mare?» chiese sua madre con aria delusa.
Mo si fermò a riflettere, alzò un braccio per sentire meglio il vento.
Han si guardò intorno. Benché sembrasse desolato, quel luogo brulicava di presenze umane. Le persone si muovevano furtive, senza tentennamenti. Entravano e uscivano dal bar all’angolo, sparendo nelle loro auto, risucchiate da quell’orizzonte di cemento e silenzio.
Suo padre abbassò il braccio. «Soffia da lì» sentenziò. «Il mare è da quella parte.»
Proseguirono fino alla litoranea. Altri palazzi – alcuni dall’aria malmessa, altri nuovi di zecca – e una striscia d’asfalto punteggiata da dossi e rotonde li separavano dall’inizio della spiaggia. «Ecco…» indicò Mo.
Han alzò lo sguardo oltre la fila di ombrelloni e ammirò quella cosa sconosciuta: il mare. Una tavola azzurra e piatta, che si increspava disperdendosi in mille rivoli biancastri quando sbatteva sulla scogliera.
Si inoltrarono circospetti sulla sabbia, scansando gli sparuti gruppi di bagnanti. «Qui va bene» sentenziò suo padre ai margini della spiaggia libera. Han poggiò lo zaino e si tolse le scarpe. «Posso?» Corse verso il bagnasciuga e infilò i piedi nell’acqua. Camminava un passo alla volta, diligente come un esploratore in una terra sconosciuta. «Posso andare più avanti?» C’era la bassa marea, l’acqua gli arrivava alle caviglie.
Mo annuì sorridendo. «Solo fin dove tocchi, ricorda che non sai nuotare.»
Han proseguì. Dopo ogni passo si girava in cerca dei loro sguardi, poi il mare si alzò di qualche centimetro e gli bagnò le ginocchia. Si bloccò. Puntò i piedi sul fondale e attese lì incollato. E adesso?, pensò, che faccio adesso?
Osservò i suoi genitori da lontano. Sembravano così uniti, impossibili da spezzare. E allora si convinse che non sarebbe mai annegato: l’alcol, le altre donne, i litigi, qualsiasi cosa fosse accaduta ci sarebbe stata sempre una rappacificazione. Sarebbero rimasti per sempre insieme. E se il mare di colpo si fosse alzato, o se lui avesse infilato un piede in un fosso, Mo e Liu sarebbero arrivati per metterlo in salvo.
Suo padre si tolse la maglietta, entrò in acqua e lo raggiunse. «È arrivato il momento di insegnarti ad andare sott’acqua come un pesce» disse.
Estratto da Le creature di Massimiliano Virgilio © 2020 Rizzoli