I ricordi dell’incarico presso il Reparto dei minori irrecuperabili dell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà, a Roma, sono al centro di Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8, libro di Massimo Ammaniti in uscita per i tipi di Bompiani. Un testo che fa i conti con l’orrore e la sofferenza di bambini che erano letteralmente rinchiusi e confinati in quell’istituto, spesso legati ai letti e seminudi, abbandonati dalle famiglie. Il primo incarico di Ammaniti durò un solo giorno, il secondo, invece, a partire dal 1972, durò due anni, e rappresentò il tentativo di riconsegnare a quei bambini reclusi una vita migliore, prendendo le forme di un vero e proprio combattimento, scandito da momenti drammatici. Si trattava di cambiare profondamente il quotidiano del reparto, spingendo per stravolgere regole, abitudini, comportamenti, aprendolo anche all’esterno, all’insegna di una rivoluzione che prendeva la mosse da quella critica radicale delle istituzioni manicomiali propria dell’antipsichiatria e della lezione di Basaglia. Una toccante quanto preziosa testimonianza di Ammaniti, che si riconnette anche alla dimensione più intima e familiare dell’autore.
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Forse non è stato solo il caso a farmi scendere le scale della Neuropsichiatria infantile per occuparmi di bambini. Sempre più mi convinco che le apparenti casualità nascondono percorsi sotterranei che seguiamo senza rendercene conto. Questo pensiero mi fa tornare in mente Le vie dei canti di Bruce Chatwin, in cui lo scrittore inglese racconta di come gli aborigeni australiani si spostino seguendo un labirinto di passaggi visibili solo ai loro occhi. Anche nel mondo occidentale non sempre le nostre vie sono percorribili con gli occhi della ragione, spesso c’è un fi lo nascosto che attinge dal nostro inconscio e dallo scenario dei sogni. Adesso che mi sto avviando verso l’ultima tappa della mia vita mi sembra di rintracciare questo filo che ho ripetutamente riannodato, e che mi ha portato e mi porta ancora oggi a occuparmi dei bambini. Evidentemente ero già orientato verso quella scelta, il caso è solo intervenuto per dare un ulteriore impulso, mettendomi a contatto con genitori che da me si aspettavano di ricevere risposte sulle condizioni dei propri figli. Le domande erano sempre le stesse, anche se formulate con parole e toni diversi: “Che cos’ha mio figlio che ancora non cammina?” oppure “Perché non parla se gli altri bambini della sua età già lo fanno?”.
Nei loro volti coglievo preoccupazione e angoscia verso quelle creature che tardavano a crescere e a conquistare le tappe del normale sviluppo. Di fronte a quei figli in cui fin dalla gravidanza, e anche prima, avevano riposto tante aspettative ora deluse, avrebbero voluto trovare un medico che li rassicurasse e indicasse loro la strada da percorrere. Era la stessa muta richiesta che aleggiava nello studio pediatrico di mio padre, dove i genitori in attesa di un parere si chiedevano se sarebbe stato in grado di guarire o meno i loro figli. In quegli incontri avvertivo qualcosa di magnetico che andava al di là delle parole, un lessico fatto di sguardi, di espressioni del viso, di gesti che era la premessa necessaria alla diagnosi. Tra i miei ricordi d’infanzia ci sono questi pazienti seduti sulle poltrone e sulle sedie nell’ingresso del nostro appartamento, in attesa di essere chiamati dall’infermiera.
Magra e ossuta, nonostante quella voce un po’ gracchiante che a me faceva pensare a una strega, Concettina sapeva rassicurarli. Dato che avevo il divieto di fermarmi, io passavo veloce e guardavo di sottecchi bambini e genitori. Erano soprattutto le madri ad accompagnare, i padri si vedevano poco e quando venivano rimanevano in piedi, dando l’impressione di avere fretta di andare via. C’era grande varietà tra chi si affidava alle cure di mio padre: genitori della borghesia romana e persone di estrazione più umile, che a volte venivano dai paesi attorno a Roma. Lo capivo dall’abbigliamento ma anche dal modo di parlare e di gesticolare. A volte, chi arrivava dalla campagna portava in regalo un pollo o delle uova avvolte in fogli di giornale. I bambini erano un po’ di tutte le età: c’erano lattanti in braccio alle madri che piangevano disperati e bambini più grandi con aria intimidita e preoccupata perché consapevoli di dover andare dal medico. E poi ragazzini alle soglie dell’adolescenza ma ancora in pantaloni corti, privi di quella spavalderia che contraddistingue i loro coetanei di oggi, in jeans, T-shirt e scarpe da ginnastica. Per me erano presenze estranee ma al tempo stesso familiari. Qualcuno a volte lo riconoscevo perché tornava in più occasioni, e io, mio fratello e mia sorella ci chiedevamo se fosse ancora malato e papà non lo avesse curato bene.
Per noi era una specie di palcoscenico quotidiano, pieno di attori con cui non potevamo interagire, personaggi pirandelliani in cerca di autore. Ma il loro copione era fi sso: esprimevano dolore, preoccupazione, a volte anche speranza. Il regista di quello spettacolo, invece, mio padre, non lo vedevamo quasi mai, perché se ne stava nel suo studio, da cui provenivano i pianti inconsolabili dei piccoli pazienti. Li immaginavamo sottoposti alle torture più dolorose, pur consapevoli che quello era l’unico modo per guarirli. Mio padre teneva molto ai suoi pazienti e la nostra vita era condizionata dalla loro presenza. Ci ricordava continuamente: “Non fate rumore, ci sono i clienti.” Non potevamo giocare a palla né alzare la voce. I suoi pazienti entravano spesso nelle discussioni di famiglia perché mia madre non li avrebbe voluti in casa, anche se l’alloggio era separato dallo studio. Temeva che noi bambini potessimo essere contagiati dai malati. Quando scelsi gli studi di medicina non avevo in mente di seguire le orme di mio padre, mentre lui dava per scontato che avrei raccolto il testimone e lavorato nel suo studio. Quando lo vedevo fare un’iniezione oppure mettere dei punti a un bambino ero colpito dalla sua abilità manuale e dalla sua predisposizione alla cura dei piccoli malati. Per me è sempre stato diverso, e quando qualcuno si faceva male, soprattutto se si trattava di bambini, preferivo mantenere una certa distanza fi sica invece di darmi da fare per aiutare. E infatti, scegliendo psichiatria per l’internato e la tesi, avrei evitato di occuparmi di malattie fisiche.