L’idea di Massimo Bubola – musicista, poeta e scrittore il cui nome è indissolubilmente legato ad alcune delle più note e amate canzoni di Fabrizio De André come Rimini o Fiume Sand Creek – è quella di trasformare le canzoni più famose in un romanzo. È, infatti, ciò che ha fatto con Sognai talmente forte, libro in uscita ora da Mondadori. Infatti, partendo da un immaginario collettivo musicale che fa parte ormai a pieno titolo della cultura popolare italiana, Bubola ha creato, con un percorso a ritroso, il racconto della creazione di quelle indimenticabili canzoni create non solo a fianco di De André, ma anche di artisti come Mauro Pagani, Fiorella Mannoia e i Gang. Così, Sognai talmente forte si configura come un viaggio nella tradizione musicale nazionale e, allo stesso, tempo, indaga i diversi legami di quest’ultima con le suggestioni provenienti dalla letteratura, dando vita a un testo profondamente lirico e struggente allo stesso tempo. Protagonista del libro è il vecchio Callimaco, uomo giunto alla fine della propria esistenza lungamente vissuta tra musica e canto, che passa in rassegna ricordi e sogni passati nel trascorrere del suo ultimo giorno.
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Il vecchio Callimaco, giunto alla fine di una vita vissuta nel canto e nella musica, trascorre il suo ultimo giorno circondato dalle tante persone che lo hanno amato, e con loro ripercorre i momenti cruciali della sua vita, tra ricordi, sogni e visioni. Racconta così di quando, bambino, era il piccolo “servo pastore”, amato e temuto dalla comunità, per il suo indomito spirito di eretica libertà; dialoga, in sogno, con la figlia Teresa dagli occhi secchi, che per amore dal mare di Rimini finisce a morire nell’Argentina delle torture e della dittatura; si diverte a ricordare la filastrocca di Volta la carta, e si commuove nel ricordo degli amici nativi americani che gli raccontarono la strage del Fiume Sand Creek … E poi ancora, Callimaco rievoca Il cielo d’Irlanda, l’Hotel Supramonte e tanti altri luoghi e immagini che – attraverso le canzoni – sono entrati nell’immaginario collettivo degli italiani. Quella di Bubola è una grande operazione letteraria, destinata a lasciare un segno profondo nella storia della cultura contemporanea: le sue canzoni tornano qui in un’altra forma, quella della prosa d’arte, e rivivono, arricchite di nuove suggestioni, nuove sfaccettature, nuova luce.
Era la mattina di domenica 24 maggio. Fuori c’era un sole rauco, dopo tanto piovere, che cantava un blues tra le ultime nuvole di catrame e i ritardatari scrosci del temporale. La stanza semibuia aveva uno specchio ovale sopra il largo letto matrimoniale di noce, dove si rifletteva la luce di novantuno candele messe sul comò in un grande vassoio tondo d’argento. Fuori, lungo i corridoi della casa, c’era una teoria sommessa di donne vestite di scuro che pregavano sottovoce, di uomini che sottovoce bevevano piccole tazze di caffè e di bambini con una fetta di torta in mano che, sottovoce, sbocconcellavano e ridacchiavano tra loro. Sopra quel ronzare ovattato si sentiva salire lentamente a spirale una vecchia canzone, intonata da una profonda voce da baritono. Il canto vibrava come il cavo d’acciaio della chiatta sul fiume e si esprimeva in una lingua dal suono familiare, bella da ascoltare, ma difficile da definire. Cantava parole lente e ritmiche, con lunghe vocali, e soffiava via le esse come foglie al vento, le erre le arrotolava come acciughe, le elle le lanciava come trottole tra i birilli delle vocali; le ti erano come stappate dal collo di una bottiglia, le effe erano refoli d’aria che alzavano le tende. Le vi staccavano le parole come ciliegie e le emme indugiavano sulle labbra come a voler lanciare dei baci attraverso una tromba. E così questo canto del vecchio Callimaco rotolava per le stanze, i corridoi, i vicoli e le piazze della grande casa. Si annodava all’imponente lampadario asburgico della sala da pranzo, scendeva dalle scale di legno giù alle cantine di pietra, per risalire e poi rispandersi nell’aia, nelle stalle e nelle rimesse dei carri, e da lì arrampicarsi su per il glicine, per ritornare infine alla bianca camera da letto dalle gigantesche travi di castagno.
«Nonno, perché continui a canticchiare sul letto di morte?» chiese a Callimaco il nipote Gilroy, l’americano, arrivato lì per la veglia funebre. «Caro Gilroy, cantare è esistere, e finché canterò saprò di essere vivo. Tutto quello che rammento della mia vita è una lunga, vecchia e inzaccherata canzone d’amore. Quello che non si può più ricordare o rivivere si può ancora cantare. Le canzoni non si dimenticano mai, e mai loro si dimenticano di te. Non ricordi la musica e i versi, e loro escono dal taschino della tua memoria come un fazzoletto bianco pieno di note: un attimo prima non rammentavi niente, un attimo dopo le canti, con le parole e la musica che scorrono sulla tua fronte come su uno schermo, da dentro a fuori di te. Se non riesci a piangere, le canzoni piangono per te. Se sei disperato, si disperano con te e ti fanno idratare l’anima di limone, di gin e di lacrime. Se ti senti umiliato, si sdraiano davanti a te come al loro re, e ti alzano da terra fino sul trono, ridandoti la corona. Se non sai dire parole d’amore, loro te le suggeriscono da dietro una porta socchiusa, una tenda, un vaso di gerani, o dai fianchi di una chitarra. Se sei perso, si perdono con te, e ti riportano dove non sapevi di tornare. La mia vecchia canzone d’amore è una scia di passione e di dolore.
Una stella che scivola via nel cielo, lasciando un sentiero argentino di lumaca e tutt’intorno un pulviscolo di neve e insetti e limatura di lacrime, ed estrae luce dal buio e musica dal silenzio verticale. Le melodie seguono i profili delle persone amate, contornano le loro silhouette insieme a quelle degli alberi che ti hanno parlato. Le cupole d’argento delle città guardano i bambini che vanno a scuola e al tramonto si scolorano in azzurrognolo, come le montagne là in fondo, sopra il mare Le parole sono messe una accanto all’altra come lampadine tonde di una collana: ognuna riflette la luce e il suono dell’altra e ne è riflessa e riverberata a sua volta, e insieme formano una ghirlanda che, come uno sciame radioso, nelle sere vaga e saltabecca sui boschi e sulle nere colline, duettando col firmamento che scorre. Canto questa canzone che ha raccolto, nelle tante notti, parole emulsionate dai sogni, attraverso il loro guscio trasparente. Canto questa canzone per gli amori morti bambini senza l’ombra di un grido, con l’espressione composta di un miracolo riconsegnato intatto all’infinito. Canto una canzone di amori tirati giù dal patibolo, tratti dalla fossa e ridonati ai giorni. Di amori rinsecchitisi in un cuore magro e virtuoso che non cedeva né all’alcol, né alle lacrime, né al vento e non si cibava di pagine bianche, nere o rosse, ma si manteneva gracile nutrendosi solo di insulsi germoglietti digitali esenti da digestione. Immagini future già scadute. Parole senza braccia, e braccia senza ali. Canto questa canzone per tutto lo sgocciolio di lacrime raccolte nei secoli dalle grondaie umane. Pioggia che è entrata nella testa e dalla testa è filtrata alla gola e poi nel cuore, allagandolo di visioni incontenibili, e poi è scesa giù nello stomaco distillandosi in alcol purissimo per precipitare ancor più giù dentro le viscere, per finire la sua corsa espellendo dal buco del culo le sue verdure esauste, le sue parole consunte assieme a pagliuzze d’oro.