La conclusione di Kurt Cobain: “Da molti anni non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla, nel leggere e nello scrivere”.
La visione poetica, vera e malinconica di Nick Drake : “La fama è solo un albero da frutto molto malato, non potrà mai fiorire finché le radici sono a terra, E così gli uomini famosi, non troveranno mai una strada, finché il tempo non sarà volato lontano, dal giorno della loro morte”.
La fatidica recensione di Jon Landau: “Stanotte c’è qualcuno di cui posso scrivere nel modo in cui scrivevo dieci anni fa, senza riserve di alcun tipo. Giovedì scorso, all’Harvard Square Theatre ho visto il passato del rock and roll balenarmi davanti agli occhi. E ho visto anche qualcos’altro: ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
È disponibile in libreria e negli store digitali il nuovo libro del giornalista Massimo Cotto Il rock di padre in figli* (Gallucci Editore 2023, pp. 320, € 16,50).
Massimo Cotto, nato ad Asti nel 1962, è autore di 73 libri, giornalista professionista, esperto di musica, DJ radiofonico, autore televisivo e teatrale, presentatore e direttore artistico di numerosi festival e rassegne. Oggi è una delle voci più note di Virgin Radio, dove ogni mattina conduce il programma Rock & Talk. Per diversi anni è stato alla guida di Sanremolab e Area Sanremo. Negli ultimi anni è stato interprete di diversi spettacoli teatrali, tra cui “Chelsea Hotel”, “Rock Bazar” e “Decamerock”. Per Gallucci editore ha pubblicato “Il Re della Memoria”, vincitore del Premio Selezione Bancarella 2023.
In Il rock di padre in figli*, Cotto rivolge la sua narrativa al figlio sedicenne e a tutti i giovani di oggi per esplorare il mondo del rock, i suoi riti, la sua bellezza, la ribellione e l’estasi. Il libro, un tributo a una generazione che potrebbe non vantare il rock nel proprio bagaglio culturale, spiega perché il genere è stato così fondamentale, influenzando non solo la scena musicale ma anche le vite personali.
Attraverso un racconto avvincente, Cotto esplora il momento in cui il rock è esploso come ricerca di uno spazio proprio, con la frase: “La vita è mia e decido io cosa farne”, una delle migliori definizioni del rock.
«Raccontare il rock a mio figlio che ha 16 anni è stato bellissimo, perché ho potuto descrivergli quello che il rock ha fatto a livello collettivo per la società, ma anche a livello individuale, per ognuno di noi – afferma Massimo Cotto – Tutti abbiamo bisogno di sogni, passione, bellezza, musica. Ognuno le trova in luoghi diversi. Quelli della mia generazione si sono rifugiati nel rock. Il mio libro racconta il rock, ma, in un certo modo, racconta anche un modo di vivere e sognare».
L’autore affronta i divi del rock da Elvis Presley a Jim Morrison, da Patti Smith a Bruce Springsteen, dai Metallica ai Rolling Stones, dai Pink Floyd a Bob Dylan, dai Cure ai Queen. Di ognuno rivela gli elementi innovativi e distintivi riportando simpatici aneddoti, come quando Axl Rose aveva promesso ad una discografica che avrebbe firmato per la sua etichetta “se avesse accettato di camminare nuda lungo il Sunset Boulevard”.
È un libro che si divora perché trasuda di amore per la musica. È un monologo vivo che nasce dalla comprensione profonda dei fenomeni musicali degli ultimi settant’anni. Un’analisi vera e appassionata che scopre i mille volti, le innumerevoli storie, e le tante ferite di un mondo pulsante di emozioni, bellezza, note e parole, di quella piccola grande follia chiamata rock.
Carlo Tortarolo
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<<Papà, ma, esattamente, che cos’è il rock?»>>
Avevi pochi anni, e dieci anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più. Non l’avevi mai chiesto, perché io e tua madre abbiamo sempre evitato di condizionarti con il nostro lavoro. Tua madre, lo sai, fa l’attrice e presenta programmi in televisione, io faccio il conduttore in radio e vivo di musica. Abbiamo sempre avuto il timore di essere genitori “ingombranti” e “condizionanti”. Volevamo che fossi tu a scegliere la tua strada, la tua dieta musicale, a provare il meraviglioso senso della scoperta.
A casa non abbiamo mai parlato apertamente con te del nostro mestiere. Conosciamo persone che, forse anche involontariamente, hanno cresciuto i figli schiacciandoli con il peso di ciò che loro avevano fatto. Noi abbiamo preferito con- centrarci sul peso delle cose che tu avresti potuto fare scegliendo in prima persona. Consapevoli della discreta dose di rischio che c’è in questa via.
Certo, questo comportamento ha scatenato episodi buffi, che i nostri amici ricordano spesso. Ad esempio, quella volta a Genova. Palazzo Ducale. Io sul palco a raccontare storie dal mio spettacolo Chelsea Hotel, tu con la mamma in prima fila. Avevi quattro anni. A un certo punto, ti sei agitato sulla sedia e poi ti sei alzato. Sei salito sul palco, ti sei avvicinato, mi hai fatto cenno di abbassarmi, hai preso il microfono e poi hai detto a tutta la platea: «Sono molto arrabbiato con la mamma».
Il pubblico è scoppiato in una lunga risata a cui ha fatto seguito un applauso e tu ti sei risentito. Mi hai chiesto: «Papà, perché ridono se io sono arrabbiato?» Eri così abituato a vedere tuo padre e tua madre sul palco che non è ti mai venuto in mente che potesse essere anche un lavoro. Per te era normalità.
O quell’altra volta. Il primo giorno di scuola, alla Mazzarello. Ad accompagnarti, quella mattina c’era anche Giorgio Faletti, che chiamavi zio Giorgio e che si era come al solito scatenato sparando a raffica una battuta dopo l’altra alle mamme preoccupate di lasciare i figli a una nuova avventura.
Sei tornato a casa felice.
<<Com’è andata, amore?»
<<Bene, papà. Ho solo avuto un problema»>
«Quale?»
<<Mi hanno fatto una domanda e non sono sta- to capace di rispondere>>. Io avevo sorriso e pensato che anche da adulto continuavo a imbattermi in domande alle quali non ero in grado di rispondere. La domanda che ti avevano fatto era: “Che lavoro fa tuo papà?”
La maestra lo sapeva perfettamente, ma voleva vedere come lo descrivevi. E anch’io ero curioso. Non avevi saputo rispondere perché del mio lavoro non avevamo mai esattamente parlato.
Così ho provato a raccontarti un po’ di cose, velocemente, perché il giorno successivo te l’avrebbero richiesto.
La mattina dopo sei tornato a scuola e io non vedevo l’ora di sapere, una volta che fossi rientra- to a casa, come avevi risposto.
«Allora, amore, che cosa hai detto?»>
Tu mi hai guardato con la tua faccia buona e furba e hai risposto: «Ho detto: mio papà parla alla radio». Non ho mai sentito una definizione più bella del mio lavoro. Avresti potuto dire che faccio una trasmissione, che presento un programma, che lavoro a Virgin Radio, che faccio radio. Oppure parlare delle altre mie attività. Hai detto la cosa più semplice e vera: parlo alla radio. Con tutta la magia che può sprigionare. Perché raccontare storie significa sprigionare magia.