Si è soliti ripetere che il Novecento letterario italiano abbia conosciuto l’eccellenza solo nella poesia: e forse è vero. Da Ungaretti, Saba, Montale, Caproni e Luzi, i fuoriclasse capaci di giuocare, quando non titolari, almeno in panchina, in un’ipotetica squadra che rappresenti l’Europa contro il resto del mondo non mancano davvero. Questo, però, è un libro dedicato alla prosa. E dunque: che secolo è stato in prosa il Novecento nazionale?
Nel preambolo di Fughe e rincorse, ancora sul Novecento – che inaugura per le edizioni InShibboleth Assaggi, una collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica che si preannuncia preziosa – Massimo Onofri, tra i maggiori critici italiani, traccia un necessario confine alla possibile vastità del campo di indagine in cui andrà a muoversi.
Pur soffermandosi puntuale sulle principali direttrici portanti della produzione in prosa del secolo scorso, Onofri sceglie di prendere un percorso altro, restituendoci in una disamina attentissima ragioni e popolarità, ad esempio, di quella che definisce la prosa spuria, di statuto plurale: sono queste le fughe del titolo, le opere prodotte da chi scappa dal centro romanzesco, in direzione di una periferia ideologicamente degradata, di certa scrittura di genere.
Tra chi sfugge, Massimo Onofri annovera autori e romanzi di grande fortuna, come quella – addirittura europea – del Montalbano di Camilleri, per esempio, motivata certamente anche dal successo televisivo, ma pure figlia di una congiuntura storica particolare, ipotizza Onofri, che premia in Spagna Vazquez Montalban, in Scozia Ian Rankin e via discorrendo, autori di forme diverse di un unico genere accomunato dal sollievo dello sciogliersi, nei finali, di tutti i nodi e perfino di un legittimo assicurare alla giustizia ogni colpevole.
Resta singolare che il vessillo dell’italianità venga ora portato alto da personaggi che parlano una lingua connotata da una decisa dialettalità, sottolinea Onofri, quando fino a poco tempo fa i romanzi italiani più citate all’estero erano, più prevedibilmente, Il Barone rampante e Il nome della rosa, (scritto da un Eco uscito da quel Gruppo 63, un equivoco italiano, titola Onofri, che si pone quasi all’opposto dello spettro, con la sperimentazione alta e la critica iconoclastica).
Tra le fughe, poi, oltre alle pagine dedicate a un genere minore, quello dell’elzeviro, Onofri ci fa dono di un giudizio lapidario, tranchant su una corrente che definisce il dannunzianesimo degradato di massa, nella quale annovera Aldo Busi, Antonio Moresco, Mauro Corona e Isabella Santacroce. E Erri De Luca, responsabile, dice l’autore, di stucchevole prosa e grossolane metafore. È la cosiddetta retorica del sublime basso: L’impiego alto di una materia bassa, chiarisce Onofri, parlando di De Luca, appunto, ma anche di Salvatore Niffoi, dal linguaggio esibito, di pose finto arcaiche, da Sardegna da cartolina anticata, agro-pastorale, arcaica e tragica, autorizzata da un marchio prestigioso ed esclusivo come la casa editrice di Calasso.
Tutt’altre pagine consegna invece il critico alla scrittura di un’altra personalità letteraria della Sardegna (che ama e dove è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea), Grazia Deledda, il cui ritratto apre la parte del libro dedicata alle rincorse verso la grande tradizione romanzesca.
Con lei, altre pietre miliari imprescindibili per Onofri, narrate nella sua consueta, affascinante lucidità critica e scrittoria: Mario Soldati, dalla prosa di naturalezza solo apparente, risultato, invece di un procurato allarme: per un sussulto, per un turbamento, per un’inquietudine, che sono all’origine di quel movimento di scrittura, ma che in quel movimento vengono come dissimulati.
E, a seguire, una rivalutazione a Cassola, già bollato in tempi andati come autore di letteratura di disimpegno, consolatoria: Massimo Onofri invita a riflettere sulla sua scrittura auspicando un uso appropriato delle parole, ricordando la fondamentale differenza tra l’aggettivo consolatorio e il termine consolante, il primo porta con se come una eco di mistificazione e menzogna, il secondo ci rimanda invece a quel tipo di risarcimento che è proprio di ogni autentica esperienza estetica, nel suo significato profondo di accettazione della vita così com’è. […] a quella idea, […] Cassola aveva giurato fedeltà.
In Fughe e rincorse si ritrovano poi un omaggio a Alvaro, uno a Bassani, e una magnifica restituzione della grandezza della prosa atemporale di Elsa Morante, scrittrice coincidente con sé stessa, anacronistica perché fuori dal tempo, di purezza intellettuale anche perché refrattaria a ogni contaminazione.
Prima di concludersi con un’appendice sull’arte di Guttuso, l’autore dedica infine pagine di ammirazione affettuosa a maestri di critica: vanno senz’altro lette le parole dedicate a Cesare Garboli, così come quelle dedicate a Luigi Baldacci, di cui Onofri traccia un ritratto semplicemente indimenticabile: [Baldacci] resta il campione di un’auspicata oggettività, di una razionalizzazione costante di dati e valori, critico di parossistica intelligenza, epperò di prosa limpidamente quaresimale, prodigiosamente colto e con informazioni sempre di prima mano, capace di utilizzare tutti i metodi senza feticizzarne alcuno, sovvertitore di idee correnti, del tutto impossibilitato nell’interpretazione, direi quasi per natura, a lasciare le cose così come le aveva trovate.