Con una narrazione originalissima e catastrofica Mat Osman dipinge un mondo chiaroscurale di bellezza allucinata, Rovine è il suo primo romanzo e arriva in Italia grazie ad Atlantide Edizioni nell’impeccabile traduzione di Mirko Zilahy. Raramente si trovano romanzi folli, fantastici e incastonati nella cornice di un realismo anomalo e bizzarro. E poi arriva Mat Osman e stravolge tutto, lui che nella vita è soprattutto un musicista di successo, infatti è il bassista dei Suede. Ho letto romanzi stupendi a tema “musicale”, il recente Un diluvio di veleno di Jordan Farmer a tema ecologico e rock periferico, il misterico e pandemico Uccidi quei mostri di Jeff Jakcson e il dark fantasy Armageddon Rag di George Martin, Rovine di Osman si incanala in questa tradizione di musica e fantasia, potenza visionaria e mondo contro-onirico perché la Londra di Rovine è una realtà distorta, stroboscopica e corrotta dagli incubi.
Siamo in un noir a tinte psichedeliche, dove la logica e la razionalità vengono distorte seguendo il ritmo di canzoni dissacranti. Adam vive in una Notting Hill dal cielo di cenere perché il vulcano islandese Eyjafjöll è eruttato e ha bloccato tutta Europa con la sua oscurità. Nei pressi del suo appartamento viene ritrovato il cadavere di Brandon, suo fratello gemello. Assassini col volto coperto da maschere di Paperino sono fuggiti impunemente. Cercando una risposta a un delitto tanto efferato quanto inspiegabile Adam diventerà archeologo del dolore e scaverà nel passato del fratello e nei suoi segreti, fino a cercare verità abissali nella musica del rocker Brandon. Rovine è una sedimentazione di estetiche disperate in cui filosofia e abbandono conciliano in un trip allucinato, o un pellegrinaggio ultra-reale nella morte. Magia e sacralità sono fuse insieme per cercare la vera potenza della coscienza, ispirandosi agli outsiders di Colin Wilson con le mitologie disperate di un Neil Gaiman tetro e squilibrato Mat Osman getta una luce sibillina nella letteratura fantastica contemporanea.
Cristiano Saccoccia
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Il tradimento, come tutti i piaceri adulti, va assaporato piano. Esco dall’ingresso principale di casa per l’ultima volta, nel respiro soffocato degli istanti prima dell’alba, e inspiro a pieni polmoni mandando giù l’aria cristallina di montagna. È ancora presto per il traffico, presto anche per gli uccelli, gli unici suoni che si sentono sono lo scricchiolio dei miei passi e il mio respiro: tamburo e rullante di un ritmo sbilenco. Continuo a scendere, le mie impronte scrivono sulla neve una frase senza il punto. I primi passi nel candore intatto della mattina; la mia compagna, il bambino, la nostra casa e tutto quello che possiedo sono al sicuro alle mie spalle, e io so che impronte al contrario non ci saranno mai. Ogni passo è una freccia che punta nella direzione di una nuova vita. È l’ultima volta che poso i piedi qui, qui e qui. Ieri sera ho parcheggiato l’auto di Rae a due strade da casa per non rischiare che il motore svegliasse qualcuno; persino il tradimento richiede un po’ di logistica. Tolgo la neve dal parabrezza, stacco i tergicristalli dal vetro e raschio via il ghiaccio usando una carta di credito. È una delle tre di Rae che ho prosciugato ieri sera, non che ci fosse molto sul conto, a dire la verità. Qui, vicino a ciò che ironicamente chiamano città, si sentono suoni appena accennati: i tuffi e i volteggi dei passeri, gli artigli del ghiacciaio in disgelo protesi verso il lago, il borbottio delle caffettiere dietro tripli vetri. Apro la Volkswagen Jetta con la chiave fisica, come se fossimo tornati al secolo scorso. Abbasso i finestrini, l’aria mi punge la pelle, tolgo il freno a mano. Mi muovo in silenzio, si avverte solo lo scricchiolio della gomma delle ruote sulla neve; mi spingo giù per la collina con un piede dentro la macchina e uno a terra, come fa Robin con il suo monopattino. Accelero e la neve scivola via dal tettuccio, la chiave è ancora lì nel blocco di accensione. Lascio che la velocità aumenti, chiudo la portiera e aspetto di arrivare al bivio giù a valle dove non dovrebbe ancora esserci traffico, a meno che gli spazzaneve non siano già al lavoro ma, se così fosse, li sentirei sicuramente, e comunque non sarebbe il modo peggiore per andarsene, schiacciato sotto le ruote di uno di quei bestioni del Comune. All’incrocio, con il riflesso della neve negli occhi e a velocità sostenuta, giro finalmente la chiave. Il motore borbotta e le ruote posteriori slittano sul ghiaccio portandosi appresso il mio stomaco, poi riprendono aderenza proprio mentre dalla radio irrompe della musica: il tempismo è perfetto, è un segno del destino direi, se credessi a queste sciocchezze. Sono già lontano, libero. Sono fuggito. Il tradimento, come tutti i piaceri adulti, bisogna imparare a gustarlo. È come il gorgonzola, Tom Waits, o il whiskey single malt. Da giovane ti sembrano improponibili perché in fondo sono veleno. Ma basta crescere e indurirsi un po’ che impari ad assaporarlo; non è altro che un vaccino contro la durezza della vita. Tradimento, nicotina e asfissia sono piccole morti. Questa è la sensazione che si prova ad andarsene di casa per non tornare più. Una sensazione piacevole ma tossica che ti punge alla gola, come un gin liscio. Passo da una stazione radio all’altra cercando qualcosa di leggero e veloce – anche se è improbabile che i programmi prima della colazione trasmettano roba del genere – poi un colpo di fortuna e riesco a sintonizzarmi su una stazione soul di Truckee. Abbasso i finestrini e urlo all’ultima scaglia di luna che già scompare all’orizzonte. Mi trovo 15 chilometri dopo l’interstatale, qui la neve si è già sciolta e le gomme scivolano sull’asfalto che è un piacere.