Quante sono le possibili letture di questo libro?
Come le spalle dei monti che vedo dalla finestra da cui scrivo: crinali, picchi e valli; boschi, radure e slarghi. Tra primi piani di luce e sfondi d’ombra, le vette a rifrangerne i raggi per riorientarli in questo angolo irenico da cui spostare gli occhi dall’orizzonte della pagina alle sue vertigini. Perché L’ora del mondo, di Matteo Meschiari (Hacca, 2019, pp 174, euro 15), è come la scansione ritmica e verde di un respiro. Senza una virgola di troppo – che qui, di virgole, non ce ne sono.
È la storia di Libera (“il lampo dei suoi capelli rossi e il pallore azzurrato dei suoi polpacci”, i contrasti cromatici), la storia e l’ora del mondo: il suo tempo, l’apocalissi e il presente meschino, incagliato e incanaglito, che trattiene le ombre di un tempo più ampio, fatto di possibili altri. Altri respiri, altre notti condensate e quasi insondabili, ma di cui non si è perso l’ideale, il suo anelito. La mitopoiesi cui Meschiari dà l’avvio e il Paradiso lost and found della nostra Terra desolata di eliotiana memoria con le sue voci – “Aprile è il mese più crudele…” – che sventagliano. E l’eterno dilemma tra natura e cultura. “Invece i vestiti si confondevano con erba e terriccio e Libera ricordava gli spiriti del metano che singhiozzano e sfiammellano verso l’alto”. La storia di Libera che l’ha raggiunta, affidandole un compito: quello di ritrovare il Mezzo Patriarca perduto, scomparso dieci anni prima nel giorno della sua nascita. Con l’aiuto di strambi aiutanti, l’Uomo- Somaro, il cui popolo “sorveglia le difficili relazioni tra gli Umani e i Popoli antichi”, e l’autore stesso, che la libera dal Centro Psichiatrico di Gaiato e a cui lei spiega come stanno davvero le cose, la loro genesi: “I Patriarchi dei Popoli sono i pastori delle anime. […] Poi ci sono gli Dei […] Quasi tutti sono predatori di anime e bisogna stare attenti a non farsi beccare. A me è capitato e ce l’ho fatta per un pelo. […] I Popoli sono i Semidei. Sono arrivati con gli uomini. Prima degli uomini c’erano gli Dei. Hanno nostalgia di quando l’uomo non c’era”. E’ quello che le confida la camaleontica lince che si confonde con il paesaggio (gli Dei sono dentro le cose e si mimetizzano nella natura), l’antagonista pericolosissima da cui Libera dovrà guardarsi durante tutto il suo viaggio di ricerca: “Non devi cercare il Mezzo Patriarca perduto”, le dice, “Perché i Primi contano proprio su questo. Loro lo vogliono. Vogliono che tutto sparisca e ricominci da zero […] E allora ci saremo solo noi”.
La Guerra delle Cose è cominciata. Sarà Libera a doverla impedire, a impedire la distruzione dell’umanità, a dover dare speranza e nuovo futuro alle terre appenniniche: “L’epica dei luoghi appenninici non suona corni in una qualche Roncisvalle di lamponi o cozzi di eserciti negli Aliscans di un orto abbandonato. E’ impermanenza. Nebbia folta. L’alone di quando respiri su un vetro. Quando un suono di stecco dice le crescite e le estinzioni delle cose”. Paesaggi che Meschiari descrive con terenezza e poesia, non rinunciando mai allo scivolamento dei registri, l’uno sull’altro. C’è un tempo per la contemplazione e uno per la vita che rovina addosso, imperfetta e grossolana.
Ma domina un senso di pietas che allarga la visione e la slancia in abbraccio. A chi sa vedere oltre, dentro e oltre, senza farsi immiserire dalla paura di chi non capisce e rinchiude, nello specifico gli Umani, che Libera non dovrà guardare negli occhi altrimenti loro vedranno i suoi e sarà la fine, le consiglia l’Uomo-Somaro, perché i suoi occhi “sono pieni di boschi […] Tutte le lune che hai visto. Tutte le notti che hai passato a camminare. Gli incontri con le bestie e il silenzio delle rocce. Lo schianto del tronco sotto il fulmine e il buio dei fondali. Vedranno tutto questo e lo vedranno in una perla così nera e compatta che proveranno spavento. Allora ti perseguiteranno. Diranno che sei malata. Che sei matta. Proveranno a rinchiuderti. A piegarti. E se non ci riusciranno proveranno a ucciderti”. E’ il destino del diverso. Di chi, libero, deve essere imbrigliato, riportato alla condivisa e cieca normalità, alla mediocrità, all’opacità. Al contrario delle parole di Meschiari che si fanno carico di trapassare quell’opacità e di allargare la via. Così: “Era di nuovo buio sui crinali e sui boschi bassi e sulle brughiere di erba cervina. Il sentiero illuminato da una piccola luna incinta inciampava tra brecce d’arenaria e macigni argentati che spuntavano tra terra e neve. Ma ecco. L’alba che cade all’improvviso e scoppia sulle terre come una piccola meteora. In quella luce devastante le cose del mondo erano così numerose e così scolpite e così sovraccariche di minuscoli dettagli che l’occhio si rifiutava di riposare e la mente sopraffatta metteva la testa sotto l’umbratile ala del silenzio”.