Una breve frase campeggia sul retro del romanzo: “il paese è una stanza”, è la prima cosa che salta all’occhio, cinque parole che non potevano esser più calzanti per scandire un mantra veritiero quanto un’epigrafe, a lettura ultimata mi verrebbe da aggiungere anche “senza porte né finestre” e chi c’è cresciuto, in uno sputo di case come quello descritto da Mattia Grigolo, probabilmente ne converrebbe.
Nel paese ci nasci, più di rado scegli di viverci, nel paese tiri su le fondamenta e poi i figli, ti prendi cura della sua terra, ci coltivi le piante da orto, ci sotterri le bestie utili e quelle amate. Il paese è una stanza con troppi occhi e bocche che sanno star chiuse quando serve, dal paese non si scappa, è cosa risaputa e se è vero che i panni sporchi s’hanno da lavare dentro casa, altrettanto doveroso occorre sempre prender posto al capezzale di un focolare domestico in cui ci si muove per azzanni.
«C’è una nebbia arrogante, pare ghignare. Si è ingoiata la minuscola chiesa con tutto il campanile e mastica la piazza davanti. L’insegna dell’unico bar del paese ancora aperto arde di rosso sfocato, sputata fuori nella sera fredda e insieme umida. All’interno, tre uomini guardano una partita di calcio. Non parlano, seduti divisi a tavoli distanti. Un bicchiere di rosso davanti, posaceneri pieni e mani graffiate.»
È una storia semplice di gente altrettanto semplice, quella di Mattia Grigolo, uno scrittore la cui furia s’era già fatta sentire nel potente esordio (La Raggia – Pidgin) e che oggi torna a mordere con gli stessi canini esposti, ficcando il verbo nella carne stavolta non di un singolo disperato bensì di tre famiglie il cui passaggio di testimone s’è macchiato di una violenza inaspettata.
Un gesto nato nel gioco e terminato nel sangue, mentre la Carrà cantava dal tubo catodico e le esistenze di due generazioni si contaminavano del sangue inaspettato di un segreto condiviso.
L’idea che da certi spettri non ci si possa liberare è cosa risaputa, la colpa è una carcassa che s’ha da spolpare negli anni («quando tutti sono in colpa, nessuno ha la colpa») e non è certo un caso che anche in questa “bassa” senza nome lo scandire dell’intreccio si dilati nelle annate: dall’estate del ‘65 al Natale del 2019.
Cinquant’anni rotolati nei fossi, tra giochi ingenui di bambini strambi con gli occhi arrossati dal pianto e un paese storto la cui piazza sembra «un aeroporto senza aerei, che non porta da nessuna parte». Un posto come tanti se ne contano lungo l’orizzonte padano, con tutti i crismi che occorrono a far venir sera: il bar (baluardo imprescindibile) con l’Anna sempre pronta a versare un cicchetto torbido dopo una giornata tra i filari, il campetto da calcio per smaltire la rabbia, la canonica per farsi perdonare e una parrocchia con un Don geloso del nuovo prete «perché è giovane, più giovane di lui, e le voci che girano non gli piacciono, anche se non si capisce cosa e vero e cosa non lo è».
«Lo scemo svolta l’angolo che da via Roma scende verso la zona delle popolari. Il pomeriggio comincia a imbrunire sull’orizzonte padano, che pare un lenzuolo di velluto sopra i campi, sdraiati come un materasso rattoppato. La nebbietta si butta fuori da chissà quale spaccatura del cielo oppure della terra.»
La vita nella pianura a volte sembra essere solo questo: l’accatastarsi dei giorni come casse di frutta impilate nei capanni ma se il legno di cui son fatte non è di quello buono, sarà questione di un attimo far marcire tutto. Una spora sospinta dal vento che attraversa l’aria come una biglia scagliata da una fionda maldestra, perfide coincidenze di tempo e spazio capaci di mandare al macero intere annate, a nutrire la pena ci pensano poi gli inverni intabarrati nell’umidità, una terra limacciosa che accoglie l’acqua quanto il sangue e quasi par di sentire l’eco di Zanotto quando parla di queste zone come di un «incerto aldilà, un luogo di anime perse, che forse sono solo in attesa di un segnale o di un traghettatore».
Grigolo impasta la lingua di sgorbi dialettali e onomatopee linguistiche che sembrano modellate dalle mani esperte delle azdore, dando vita a una prosa meticcia che lavora per immagini impressioniste e una narrazione scomposta quanto il passo del tocco di paese. L’impressione, a pelle, è di ritrovarsi all’interno di una pellicola del miglior Garrone girata nei pressi del Delta e al lettore basta davvero un niente per ritrovarsi membro della famiglia e spartirne la medesima dannazione.
Al pari di Cibotto, Premunian o Zavattini, prima di lui, Grigolo in poco più di duecento pagine ha saputo ricreare la propria Waste Land personale, infondendo in ogni disgraziato qui presente quel caratteristico paludismo dell’anima necessario a rendere la sua “gente alla buona” quanto di più coerente e credibile si possa leggere nel panorama contemporaneo.
È dunque un perdersi infido, ammaliante e perturbante, l’avanzare in questa coltre di segreti taciuti e patti stipulati da palmi imbrattati dello stesso sangue e sottrarsi pare impresa inumana, se non impossibile, quanto il dannarsi per cercar di uscire da una stanza senza porte né finestre.
Stefano Bonazzi
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Gente alla buona
Mattia Grigolo
Fandango
16,00 euro — 208 pagine