Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Metropoli. Intervista a Massimiliano Santarossa

Home / L'intervista / Metropoli. Intervista a Massimiliano Santarossa

imgresTrasuda carne e vita. Non lascia scampo l’ultimo romanzo di Massimiliano Santarossa, Metropoli (Baldini & Castoldi, pp. 210, 17 euro). Le sue pagine visionarie sono un’istantanea della realtà, trasfigurata in un’apocalisse dalle dimensioni poderose. È il 2035. Non esistono gli stati, né le industrie, né gli eserciti. Tantomeno le geografie. Esiste Metropoli. Il presente. Nient’altro. Non c’è spazio per ricordi, sogni, men che meno speranze. Il protagonista è l’internato numero 5.937.178, che ha raggiunto Metropoli per salvarsi dalla distruzione del mondo. Gli abitanti, chiamati internati e identificati con un numero, sono tutti impegnati a svolgere il proprio compito, finalizzato alla crescita della città. A controllare le attività pensano le guardie, sui cui cappotti campeggia la scritta «Polizia Finanziaria».
Leggi regolano ogni istante dell’esistenza degli internati. Tutto è un ingranaggio del sistema, persino le persone che persone non sono più, ridotte ad automi la cui esistenza è asservita alla propria produttività: «Ogni internato ha come compito la continuazione della propria vita in funzione della vita della città. Per questo ogni internato avrà cibo, alloggio, protezione, lavoro […] Metropoli chiede questo: dovete vivere.»
Anche il cibo è volto al rendimento della capacità lavorativa: «Obbligo degli internati è assumere duemilaquattrocento calorie quotidiane, così da ottenere la massima efficienza e la maggiore capacità produttiva». Uomini macellano altri uomini e producono la gelatina che poi sarà distribuita come pasto quotidiano («Niente è più nutriente dell’uomo per l’uomo»). Il protagonista, una volta entrato, dovrà affrontare la quarantena, un periodo di adattamento al nuovo macrocosmo. Assisterà a metodi disumani, volti alla rieducazione degli abitanti, come l’elettroshock e la lobotomia. «Ci costringono a dimenticare per governarci», spiega uno dei tanti cittadini numeri, prima di sottoporsi a uno dei trattamenti previsti per lui.  Il romanzo di Massimiliano Santarossa si inserisce nell’immaginario di una certa tradizione. Basti pensare al celebre 1984 di Orwell o a film come Metropolis di Lang, a Blade Runner, a Fahrenheit 451, film di Truffaut, tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury.
Metropoli, tuttavia, ha una voce propria. Fagocitante. Una volta ascoltata, resta addosso e non basta chiudere il libro per liberarsene. La scrittura è tagliente, si intuiscono cesellature e limature continue, confermate dallo stesso autore che dichiara di aver lavorato cinque anni al romanzo, apportandovi varie riscritture, revisioni e venti correzioni di bozze, prima della pubblicazione. Massimiliano Santarossa, con Metropoli, non intrattiene, sventra il pensiero. Scardina ogni certezza, a dispetto dello scioglimento della trama, e induce a fermarsi, a rimuginare, a porsi degli interrogativi e a guardare il mondo con sana distanza, forse come si guardava prima che si diventasse “internati”, ciascuno nella sua Metropoli. Probabilmente, una volta tanto, siamo di fronte a uno Scrittore e non a una sua parodia.

#

Il Veneto e il Friuli hanno una tradizione di scrittori impegnati che hanno fatto del coraggio e della denuncia sociale la cifra distintiva della loro scrittura. Oltre all’impareggiabile Pier Paolo Pasolini, al Nordest sono accostati autori recenti come Pino Roveredo, Marco Paolini, Mauro Corona. Tu sei nato a Villanova (Pordenone). L’attenzione nei tuoi confronti è dipesa, secondo te, più dagli ambienti che hai raccontato nei primi libri o dalla tua scrittura?

Siamo tutti figli dei luoghi, figli dell’asfalto su cui camminiamo, delle case che abitiamo, di ciò che facciamo e di ciò che respiriamo, siamo più figli dell’ambiente in cui viviamo che dei nostri genitori. Io sono un figlio delle tensioni sociali degli anni Ottanta e Novanta, violentissime in quanto taciute, sono figlio del Friuli e del Veneto, e degli anni dello sviluppo economico che hanno coinciso unicamente con lo sviluppo finanziario e produttivo, e mai con un progresso umano di diritti o cultura. Sono figlio di un luogo, dove il denaro ha fagocitato le anime, in modo ancor più brutale degli anni di denuncia pasoliniana.

Falegname da ragazzino, poi operaio in una fabbrica di materie plastiche. Le mani sono state il tuo strumento per conoscere il mondo e poi scriverne. In quale racconto si percepiscono di più la tua origine e la tua lettura della realtà?

Tra pochi giorni esce nei Tascabili Baldini&Castoldi il mio primo romanzo, Hai mai fatto parte della nostra gioventù?. Quella è la mia narrazione più realista, racconto settantadue ore vissute in un territorio deturpato dai capannoni industriali, una storia estrema ma vera, ogni minuto, ogni ora, i tre giorni di quel romanzo sono un bagno nel realismo più viscerale, una corsa nel buio di quattro ventenni esagerati in tutto, nell’odio come nell’amore. Parlandone alcuni anni fa a Fahrenheit con Marino Sinibaldi, ebbi l’occasione di dire “Questo è un romanzo realista perché nelle pagine ci sono i tagli e il sangue dei ragazzi operai, e di me operaio”.

Orfano di padre in giovanissima età, sei cresciuto con tua madre, anche lei operaia. Quanto la sua figura ha influenzato la tua scelta di diventare scrittore? Come hai capito che la scrittura sarebbe diventata il tuo lavoro?

Mia madre è stata una metalmezzadra comunista. Una donna ancora oggi, a 86 anni, lucidissima e orgogliosa. Di una intelligenza totale, forgiata dalla necessità di sopravvivere. È stata costruita dalla vita e dalla fatica, col filo di ferro. Ha iniziato a fare la serva a casa dei ricchi a dieci anni. È diventata contadina a quindici e operaia da giovanissima. Una metalmezzadra appunto, obbligata a lavorare la terra di giorno e la notte ad andare in fabbrica, in un cotonificio, a produrre stoffa sotto getti d’acqua a 50 gradi. Mi ha partorito a 45 anni, e in sostanza non l’ho vissuta per dieci. Mio padre l’ha lasciata troppo presto, morto di fatica al lavoro, come tanti, con me piccolissimo da allevare. Il lavoro ci ha permesso di mangiare ogni sera e di scaldarci, ma il lavoro mi ha anche portato via entrambi i genitori, quella dolorosa solitudine ha lasciato in me spazi di assoluta libertà e profonda anarchia. Lei non è incisa per nulla nelle mie scelte. Tra noi c’è sempre stato una sorta di patto silenzioso. Mi ha concesso di fare ciò che volevo. Sono diventato “adulto” a 5 anni, quando in mancanza di un padre mi sono dovuto prendere la responsabilità di ogni scelta. E lei ha compreso da subito che la mia anarchia non poteva essere compressa. Ha capito che le regole, anche rigide, me le sarei create io. La mia scrittura è una vendetta, il lavoro che ne deriva viene dopo, è un modo di dare voce a chi è considerato ultimo, perdente, diverso, tutte etichette che mi hanno sempre attaccato addosso. Avrò pace dalla scrittura solo alla consegna del Nobel per la Letteratura. Anzi, nemmeno quel giorno.

Gustave Flaubert, nel 1857, in Lettera a Mille de Chantepie scriveva: “Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere”. E la tua scrittura trasuda rabbia, sembra più una pratica vitale, impellente, irrinunciabile, piuttosto che un atto creativo e razionale.

È così. Non so se trasudi rabbia. In fondo, ogni lettore coglie ciò che cerca, nei romanzi. E il mio rapporto con i lettori è totalmente paritario: scrivo senza pensare a loro, quindi col massimo rispetto della loro indipendenza. Non saprei cosa si coglie leggendomi. Però sì: è vitale. È una via di uscita da una “classe dei bambini indietro”, dove venni buttato a 6 anni, assieme ad altri tre bambini, tutti fortemente problematici. Spesso ho scritto per uscire da quel posto. Negli anni Settanta e Ottanta i “diversi” si educavano in quel modo, ghettizzandoli. Ma in molti modi è così ancora oggi. La mia scrittura è figlia di tutto ciò.

Scrivere è un atto politico?
La mia scrittura è sempre un atto politico. Ho pubblicato 50 racconti e 7 romanzi. Ogni mia parola è un precisissimo atto politico di denuncia e di ribellione.

Ai primi due libri, Storie dal fondo e Gioventù d’asfalto, legati alla tua periferia friulana, ne sono seguiti subito altri due, Hai mai fatto parte della nostra gioventù (2010) e Cosa succede in città (2011), entrambi con un taglio più narrativo. Stessa ambientazione, forse lo sguardo era meno cupo?

In verità lo sguardo era lo stesso, il cielo grigio, il peso dell’aria di periferia, i luoghi e il tempo, tutto era rimasto tale. Il cambio narrativo è stato di visione, uno spostamento dagli ambienti agli occhi dei protagonisti, l’uso di una metrica della parola in prima persona, la cifra per entrare direttamente nelle vite che volevo narrare. Hai mai fatto parte della nostra gioventù? e Cosa succede in città sono romanzi del tutto realisti, nelle voci come nelle vicende narrate. Stesso cielo. Stesso vento. Stesse paure. Stessa povertà. Medesimi destini. Ma voci diverse.

Viaggio nella notte (Hacca, 2012) è uno spartiacque tra il tuo percorso iniziale di scrittore realista e un approccio alla scrittura più visionario, quasi metafisico. Avevi chiara la direzione, forse l’evoluzione, verso la quale ti stava portando?

Mi era chiara una questione: in quattro romanzi avevo narrato tutto ciò che conoscevo a fondo, quindi la periferia e il muoversi dei corpi nella periferia. Sono andato a cercare, quindi, un modo diverso, una prospettiva “altra” per raccontare quei corpi, cioè noi, tutti noi. E mi sono chiesto come sarebbe stato narrare le paure intime, le scelte dell’anima per chi conosce la fede o i risvolti delle terminazioni nervose per chi come me è ateo, mi sono chiesto cosa il mondo, le sue luci, slogan, problemi, paure, tensioni, impegni, voci, suoni, caos, crisi morali e sociali e economiche, cosa tutto questo produce in noi, nel nostro intimo. Viaggio nella notte è il resoconto in forma di monologo dell’anima di un ragazzo destinato al suicidio. E uso con precisione la parola “destinato”.

Il male (Hacca, 2013), è una sorta di reportage narrativo, redatto da Lucifero, voce narrante che esplora il mondo dei “dannati in vita”. Come già in Viaggio nella notte, anche ne Il male sono ritratte le periferie e le vittime dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, gli emarginati, gli sconfitti. Il male segna il passaggio da uno stile neorealista a uno postmoderno?

Il male porta una lingua teologica, la metrica delle frasi ha a che fare con i canti e le preghiere, la voce è barocca. La prima domanda che mi sono posto, per narrare il “viaggio ad infera” che compie Lucifero nel mondo e soprattutto in noi, è stata: come parla Lucifero, il figlio primo di Dio, il potentissimo, il bellissimo, il padrone dei cieli? Mi sono esercitato a lungo nel trovare quella voce, la “sua” voce. Sono tornato a frequentare la chiesa per capire, per sentire, ho ripreso letture teologiche abbandonate da anni, vangeli, bibbia, trattati. Sono anche andato da un esorcista per comprendere come la chiesa intende la presenza demoniaca in questa alba di nuovo millennio. Il male va contro tutto questo, portando Lucifero al suo primo compito: la difesa del dubbio e quindi in definitiva la difesa dell’errore e pertanto dell’essere umano, che è un errore agli atti.

Ti rechi spesso alla tomba di Pier Paolo Pasolini, a Casarsa. Perché?

Pasolini è ancora adesso lo scrittore più presente nell’immaginario culturale italiano. La sua presenza è più che mai ingombrante, noi scrittori ad oggi non siamo riusciti a portare a compimento la sua intima richiesta: “Mangiate i maestri”. Vado a trovarlo, per benedire ciò che ha scritto e per maledire la sua grandezza. Con Pasolini ho un rapporto di amore e odio, come è ogni rapporto vero.

Con Viaggio nella notte, Il male e soprattutto con il tuo ultimo libro, Metropoli, ti allontani dal racconto in presa diretta e giungi a una narrazione più complessa, a tratti visionaria. I tuoi ultimi romanzi sono stati inseriti, da vari critici, nel filone della letteratura distopica. Metropoli è un romanzo distopico?

Faccio sempre fatica a dire quale sia la “categoria letteraria” cui appartengono i miei romanzi. In questo caso, faccio mie le parole di Francesco Jori, editorialista del Gruppo L’Espresso: «Metropoli segue la tradizione della grande letteratura distopica, ma allo stesso tempo è il primo vero romanzo distopico “prodotto” dalla crisi finanziaria che sta martoriando il pianeta.»

In Metropoli è presente una figura femminile, Sofia. Il nome è casuale o rappresenta il sapere, la conoscenza e dunque la consapevolezza?

Nulla è casuale in ciò che scrivo. Non ho usato mai una parola a caso in Metropoli. Ha avuto dieci riscritture e venti revisioni in bozze, per misurare ogni singola parola.

Narrativa e letteratura. La narrativa intrattiene, la letteratura indaga l’animo umano, racconta la società nel profondo, la destruttura. Riscontri una tendenza nei lettori di oggi? I più, secondo te, vogliono essere intrattenuti o spinti a pensare?

La letteratura, che si voglia o no, in Italia non è mai stata popolare e mai lo sarà, se escludiamo alcuni rarissimi casi. Non voglio in alcun modo dare giudizi morali sulle scelte dei lettori, ognuno è libero di buttare o occupare il proprio tempo. Leggere letteratura significa occupare il proprio tempo con impegno e dedizione. Non vedo oggi in Italia una grande predisposizione all’impegno, tantomeno alla dedizione. Questo è un paese che da vent’anni, dal drive in a domenica in, ha scelto lo svago. Gli effetti sociali, economici, culturali, sono sotto i nostri occhi. La letteratura reagisce a tutto questo, ma nelle mani e negli occhi di pochi. I lettori resistenti, li chiamo io.

A sedici anni, sei stato cacciato dalle scuole superiori per intemperanza, hai frequentato per anni ambienti al confine con l’illegalità. La scrittura è stata il mezzo per liberarti dallo stigma di cattivo ragazzo di strada? Ti ha fatto riappacificare col mondo?

Quel passato è così lontano che ormai lo ricordo solo rileggendo i miei primi racconti brevi. La vita mi ha preso a pugni, sberle e calci, ma lo ha fatto proprio quando stavo per scivolare dalla parte sbagliata, è stata la vita a spintonarmi di nuovo su, verso la luce. Per questo mi sono riappacificato col mondo, come uomo. Del tutto riappacificato. La scrittura invece sta su un altro piano, dell’inconscio, spesso onirico, e lì gli spazi sono aperti a tutto. La scrittura non riappacifica mai con la vita, altrimenti non sarebbe letteratura.

Dal realismo degli inizi alla distopia di Metropoli. Cosa ci riserva il tuo prossimo romanzo?

Metropoli ha richiesto cinque anni di lavoro. Porta nelle pagine la descrizione di quel mostro chiamato Occidente, del suo crollo e del suo divenire qualcosa di altro da ciò che conosciamo. Dopo Metropoli non ho più scritto nulla. Non scrivo da mesi. Per ora, tutto è Metropoli.

Click to listen highlighted text!