Evgen Bavcar, la foto qui sotto è sua, è un fotografo non vedente, ha perso la vista da ragazzo. Stamattina mi sono svegliato ricordando il suo nome e il nome di Hurbinek (ovvero la difficoltà), il bambino deforme nato ad Auschwitz, “a cui nessuno aveva insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero corpo” ha scritto Levi nel suo libro più intenso I sommersi e i salvati.
Non esistono fotografie né altre testimonianze di Hurbinek, solo quella di Primo Levi: lo descrive come un bambino di tre anni, “figlio della morte”, che non sapeva parlare né poteva camminare. Hurbinek avrebbe con insistenza detto una sola misteriosa parola “mass-klo” o “matisklo”, che nessuno riuscì a interpretare. Hurbinek conobbe solo Auschwitz. Nient’altro. Portava tatuato il numero di immatricolazione, il suo orizzonte cognitivo non fu altro che la violenza del campo di concentramento. Hurbinek non ebbe relazioni familiari o sociali e morì che non aveva quattro anni. Levi ha scritto della sua volontà di esprimersi con lo sguardo, che diceva l’incapacità di parlare: “La parola che gli mancava, e che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva”.
Levi scrive delle parole miracolose che mostrano l’orrore dell’umano e nel contempo la santità dello sguardo di Hurbinek “selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”.
Luca Sossella