Il Michael Chabon de I Misteri di Pittsburgh non è lo scrittore esperto e dotato de Le Fantastiche Avventure di Kavalier e Clay e neppure il fine raccontastorie di Wonder Boys e Telegraph Avenue, a mio avviso le due cose migliori insieme al Pulitzer di una carriera artistica che ha ormai superato il traguardo dei trent’anni. Nel 1988, o giù di lì, mentre ne abbozza la trama in un tugurio che puzza di biciclette, il giovane Michael sta completando il Creative Writing Program dell’University of California di Irvine. Sente il vento che gli soffia alle spalle, Michael. Ha la sensazione che la storia stia passando anche da quello stanzino, e che la letteratura americana di lì a poco, o forse no, cosa dico, forse quel processo è già in atto, entrerà in uno spazio nuovo, mai esplorato prima. Chabon, Foster Wallace, Franzen e Bret Easton Ellis sono i Fab Four che hanno impresso una svolta e aperto il romanzo a una generazione di maschi deboli e insicuri che però non temono di mostrare i lividi o di soccombere di fronte alle sfide più dure della vita. La “zona disagio” di Art Bechstein è compressa tra l’indicibile padre gangster e una sessualità poco nitida che non smette di tormentarlo nel corso della lunga estate che fa da sfondo alle vicende del libro.
Ai protagonisti de I Misteri di Pittsburgh non accade un granché, Ellis direbbe che quei ragazzi “esistono”. Art si è appena laureato in economia e lavoricchia in una biblioteca. Il suo personaggio non ispira grossa simpatia, parlo per me: Art è perennemente indeciso su tutto, goffo, a volte perfino mellifluo, non sa mai quello che vuole né “chi” vuole. Intorno a lui, un gruppetto di amici con tic e sfumature diverse ma dalla personalità anche stilisticamente più decisa. Art oscilla, è scritto sulla quarta di copertina – decisamente il verbo più appropriato – tra l’amore di Arthur e quello di Phlox, la ragazza punk che prima o poi dovrà arrendersi a una certa evidenza. Ma è Cleveland il miglior attore protagonista su questo set mucciniano, la corda tesa tra i due Bechstein che soprattutto nella seconda parte darà ulteriore slancio al plot. Tutto il resto è sentimento e luce. L’esordio di Chabon è un libro fresco, di una leggerezza calviniana che qualche anno più tardi ha ispirato giovani autori anche di altre latitudini, penso ai primi passi di Niccolò Ammaniti e di Claudia Durastanti. Un po’ romanzo di formazione un po’ thriller, con una prosa essenziale, senza orpelli (“Tu sei un minimalista” dice Cleveland ad Art a pagina 206). L’affresco di una gioventù americana bianca, gaia, senza pensieri.