Tre giornate (il 5 aprile di tre anni diversi) di una famiglia newyorchese prima e durante il Covid. La sinossi fa inarcare il sopracciglio d’accordo, ma fino a un certo punto. Il resto è deludente, noioso, di una mellifluità a volte irritante. Day è un libro lento e grazioso, inutilmente confidenziale, dubbiosamente assertivo, scollato dalla mente e dalle viscere di chi lo ha scritto e di chi si ritrova a leggerlo. Dan e Isabel, personaggio ispirato credo alla Isabel Archer di Ritratto di Signora di Henry James, mostrano il lato buono di sé ma il loro rapporto si sta incrinando anche per via di Robbie (?), il fratello bello e dannato di lei, che nei giorni del lockdown rimane bloccato in una baita. La reclusione solletica l’introspezione, accelera i conflitti… vi dice niente? Dan è un musicista rock fuori dal giro, Isabel un’editor fotografica dalla personalità irrisolta. Robbie sostanzialmente uno spiantato.
Dan, Isabel, Robbie: tre ologrammi che Cunningham ritaglia dalla cronaca del già visto e inserisce in una storia moscia (sì, moscia) e sentita cento volte. La cronologia, strutturata come nel romanzo più noto dello scrittore di Cincinnati (Le Ore), è una sequenza di ingenue banalità, social compresi, espediente narrativo che se enfatizzato oltre la naturalezza dei gesti non aggiunge realismo né originalità al racconto. La storia gira senza pathos, fuori sincrono; l’afonia di Cunningham è quella del romanziere ormai avulso. Cunningham non è più dentro la stanza, Cunningham è dietro i vetri. Nei momenti angoscianti manca l’angoscia. In quelli dell’eros l’eccitazione. La contesa non è tesa. L’imprevisto non sorprende. I personaggi di Cunningham non sono drammaticamente umani, si sforzano di esserlo. La quotidianità è roba per pochi, direbbe Carver. Più che un romanzo sulla perdita, Day è una perdita di tempo. Va’ dove ti porta il Covid.
Angelo Cennamo