Michel Houellebecq sarà tra gli ospiti protagonisti del Salone del Libro. Ho letto già interviste preconfezionate. Questa è la mia intervista del 2005. I tempi erano diversi, c’era più libertà di stampaMichel Houellebecq ha sempre diviso, spaccato in due critica e pubblico. Ogni suo libro è stato un pugno nello stomaco alle nostre convenzioni-convinzioni. Questa volta, invece, il suo “La possibilità di un’isola” lascia del tutto, o quasi, indifferenti. Houellebecq sembra un criceto che gira a vuoto sulla sua ruota: gira gira gira senza arrivare da nessuna parte . Anzi, visto il titolo: senza approdare a nulla. Il Nulla è quello che descrive ed il Nulla è quello che regala al lettore. Houellebecq, però, non è Bret Easton Ellis: quando tenta di confrontarsi con il “vuoto pneumatico” viene risucchiato da un vortice che si chiama noia (tedio, per chi legge). Il suo ultimo romanzo ha scatenato polemiche, stroncature, recensioni entusiaste. Insomma: di tutto un po’. Quanto basta, però, per scatenare quel circo mediatico che sempre più raramente si occupa di letteratura. Perché, sia chiaro, Houellebecq non è Dan Brown. Decifra codici dell’anima, investiga enigmi che ci appartengono dalla notte dei tempi, ma la sua scrittura -a tratti sublime- riesce a salvarlo, a farlo galleggiare. Houellebecq è un naufrago di se stesso. E il suo ultimo romanzo lo dimostra. Gli enigmi sono diventati schemi, mentre i codici da decifrare sono soltanto quelli a barre. D’altrocanto lo scrittore francese era stato chiaro sin dagli esordi. Sin da quando aveva pubblicato nel 1991 un breve scritto, Restare Vivi. Si prenda ad esempio quando sottolinea: “La società in cui vivete ha per scopo di distruggervi. E voi, al suo servizio, ne avete altrettanto. L’arma che utilizzerà è l’indifferenza. Non potete far altro che passare all’attacco!”. E all’attacco Houellebecq ci è passato subito con un romanzo, Le particelle elementari, che è un formidabile esempio di ecomarketing esistenziale. Eco perché, come dimostrerà in tutti i suoi libri successivi, quel romanzo è stato da lui stesso più volte riciclato. Ora, però, siamo al risciacquo, siamo in fase centrifuga. Che poi, a pensarci bene, è lo stesso meccanismo che fa muovere la ruota del criceto. Nel suo saggio su Lovercraft Contro il mondo. Contro la vita Houellebecq è tornato sul concetto dell’arte della sopravvivenza scrivendo che “se si ama la vita non si legge. Né d’altronde si va al cinema. Checché se ne dica, l’accesso all’universo artistico è riservato quasi esclusivamente a chi ne abbia un po’ le palle piene”. Il Michel Houellebecq che abbiamo incontrato nella sua stanza di un albergo a 5 stelle nel centro di Milano, a pochi metri da quella Brera dove negli anni ’60 autentici geni come Bianciardi avevano davvero le palle (e piene d’inchiostro), è un Michel Houellebecq che gioca ad essere un viveur dalle palle piene. E’ il suo ruolo, è la gabbia (del criceto) dove si muove con disinvoltura. La sua pacatezza, che altrove chiameremmo atteggiamento scazzato, il suo modo di parlare, di trascinare le parole cercando le stampelle di un concetto, ci fa ricordare il protagonista del suo ultimo libro: un uomo medio che non è neppure in grado di alzare l’indice (medio). Le sue provocazioni sono tutte nel suo romanzo: sfilano sulla passerella di carta ed ognuno è libero di scegliere a quale modello attaccarsi. In questo Houellebecq è molto democratico. Sei ebreo? Sei cattolico? Sei mussulmano? Sei donna? Sei uomo? Sei gay? Sei di destra? Sei di sinistra? Ti mantieni cautelativamente al centro? Non c’è problema: per ognuno di noi lo scrittore francese ha il suo metodo per tentare di farci incazzare. Non a caso è un biologo. Non a caso è un attento, ma non ci tiene troppo a sbandierarlo, lettore di Céline. E di Céline Houellebecq sembra aver tratto l’insegnamento primo: “Guarda l’ameba, la tocchi, lei reagisce: è l’emozione”. Su questo semplice meccanismo, qui tramutata in biologia da marketing letterario, si basa l’intera poetica in prosa di Houellebecq. Ed ho sottolineato in prosa, perché i versi dello scrittore, invece, sono a dir poco illuminanti. Si prenda la raccolta Il senso della lotta: sono poesie di un’autenticità e di una profondità che sconvolge. Sono frammenti di vita, schegge di sentire umano, che nell’artificio della narrazione lo scrittore lascia completamente fuori dalle pagine. Sono versi davvero liberi: forse perché la poesia non ha mercato ed è questa la vera metrica che ormai scandisce le parole di Houellebecq.
La stanza è piccola, quasi angusta, una doppia vista cielo piombo milanese, una piccola finestra che vorrebbe essere panoramica, annerita dallo smog e da cameriere evidentemente non troppo solerti, dà su una classica costruzione postindustriale. “Houellebecq ha abbandonato le Gitanes”: titola al mattino uno di quei quotidiani che non ti fanno passare “il giorno”. Ed in effetti lo scrittore è avvolto dal fumo di cigarillos che ammorbano l’aria di una stanza apparecchiata con il the delle cinque. Non siamo tra vecchie signore, ma ormai sono le sei e lo scrittore è reduce da un’intera giornata di interviste rilasciate per lo più a settimanali femminili. A fatica si rialza da letto dove si era appoggiato un attimo e si mette a giocare, quasi indolenzito, con i mocassini. Cuoio nero: usato, ma morbido. Di quelli che sembrano distrutti, ma è solo il fascino dell’usura a 5 stelle.
Vorrei chiedergli se ne ha le palle piene, ma non vorrei dare il là ad una recita di cui conosco le risposte. Si accende il registratore. E almeno per una volta, spero, non sia di cassa. Di certo registra un dialogo, solo in apparenza, surreale.
Lei questa volta ha deciso di scrivere un romanzo che in molti hanno definito di fantascienza… Mi interessava descrivere la società di oggi vista da un mondo futuro, un universo di “neoumani”, di esseri nati in provetta, clonati sul modello primo di quello che è il protagonista del libro, Daniel I. Al tempo stesso volevo sottolineare come la tecnologia resista al tempo, mentre la cultura no.
Lei nel libro ricorre ad uno dei topos della fantascienza: il ritrovamento di un manoscritto. In fondo anche La Genesi, il più bel libro di fantascienza che sia mai stato scritto, partiva da quest’idea…
Io non racconto tutto. Credo che l’importanza è che ci siano dei buchi nella narrazione. Ed ancora più importante è che ci siano dei commenti. Ad interessarmi era il rapporto tra umani e “neoumani”. In apparenza sono molto simili, ma non potrebbe essere una specie diversa? La fantascienza che descrive specie troppo diverse tra loro non mi interessa perché suscita curiosità, non partecipazione.
Philip Dick era convinto che gli unici alieni fossimo noi…
Io non credo.
Nel suo libro, però, l’interrogativo alla base è: “Chi, fra voi, merita la vita eterna? Non crede, invece, e cito sempre Dick, che bisognerebbe cercare non chi merita o promette la vita eterna, ma chi ce la può dispensare?
Avere la vita eterna. E’ il sogno degli uomini da sempre. Lo scopo è ottenere la vita eterna. Tutto il resto sono stupidaggini.
Anche la morte dell’amore? In tutti i suoi romanzi descrive questo stato moderno delle affinità affettive…
La morte dell’amore. E’ vero. E’ un’agonia dolorosa. Un’agonia per me molto interessante. Come scrivo nel libro, la solitudine a due è l’inferno consentito. Nella vita di coppia, il più delle volte, esistono fin dall’inizio certi dettagli, certe discordanze su cui si decide tacitamente di tacere, nell’entusiastica certezza che l’amore finirà col risolvere tutti i problemi. Ma questi problemi crescono a poco a poco, nel silenzio, prima di esplodere anni dopo e distruggere per sempre la vita in comune. Anche questa è una delle tante forme di morte dell’amore.
Il suo ultimo romanzo, però, è anche venato di una grande nostalgia dell’amore…
Una volta che ci si rende conto che l’amore è morto si vorrebbe che fosse ancora possibile. Che ci fosse ancora “la possibilità di un’isola”. Ma è un’illusione, una contraddizione che ci condanna tutti.
Lei scrive: “Giovinezza, bellezza, forza: i criteri dell’amore fisico sono esattamente gli stessi del nazismo…”. Sono gli stessi criteri, però, alla base anche della nostra società…
Non ho in odio la vita, ma l’organizzazione della vita. Il nazismo si pone in una posizione darwiniana: lasciar sopravvivere soltanto i migliori. L’idea che la guerra rafforzi, l’idea della guerra intesa come unico, vero piacere.
Beh, anche adesso siamo in guerra. Una guerra più invisibile, ma altrettanto letale. Quella che sociologi che lei conoscerà, come Jean Baudrillard o Noam Chomsky, definiscono “guerra non ortodossa”.
Per me no. Qui ci si può difendere
In una dittatura democratica? In quel consumismo che Pasolini vede come “il nuovo fascismo”?
Sì. Ci si può difendere.
Nei suoi romanzi, anche nell’ultimo, il consumismo importato dall’America è quello che ha rovinato l’Europa. Sono parole sue…
Non le metto in dubbio. E’ vero. Ci credo fermamente.
Quello che scriveva Pasolini negli “Scritti corsari”…
Credo che dai tempi di Pasolini non sia cambiato poi molto. Le sue parole sono attualissime. E per questo mi ci ritrovo.
Ma un autore che lei ama molto, Baudelaire, un secolo prima scriveva “Il progresso ci meccanicizzerà e l’America ci atrofizzerà il cuore”…
Baudelaire era un precursore. Ai suoi tempi il fenomeno non era molto visibile. Almeno non era così evidente come da quando l’America ha vinto la II Guerra Mondiale. L’Europa è morta lì.
Nessuno reagisce: più che salvati siamo colonizzati…
Alle persone queste cose non interessano. Bisogna solo schierarsi su altri fronti. Se un film è bello o brutto, se un libro è buono o no.
A proposito, i suoi libri scatenano sempre polemiche…
E’ proprio per questo. E’ più comodo dividersi su un libro che sulla realtà.
Realtà che Lei descrive attraverso gli occhi del protagonista, un comico che nella satira sembra trovare la propria apparente libertà…
Già: ma come Lei stesso dice, è solo apparenza.
Non so in Francia, ma in Italia proprio i comici sembrano essere diventati i depositari della verità…
Anche in Francia la situazione è simile. Il comico gode di una posizione privilegiata, incredibilmente favorevole. Ma si tratta pur sempre di giullari, di buffoni di corte. Eppure in paesi con 60 milioni di persone sembra che certe cose sia permesso dirle soltanto ai comici. Che, però, ripeto sono dei buffoni. Alla corte del re.
L’intervista finisce. Il registratore si spegne mentre Houellebecq si accende l’ennesimo cigarillo.
Il cameriere porta via il vassoio del te, mentre lo scrittore respira boccate di fumo.
Il giorno dopo lo attende l’ennesimo tour. L’ennesima mattinata di interviste una dietro l’altra. Poi, alle 15.30, una diretta via Internet, in videochat, con il popolo dei lettori-navigatori. Alle 18.30 la presentazione del libro, in una libreria megastore nel centro di Milano. La porta si chiude alle mie spalle. Si aprono quelle dell’ascensore. Siamo al settimo piano, ma con la tecnologia si fa presto. In un attimo sono ancora in strada. Ripenso alle parole di Houellebecq. E mi immergo tra la gente. Il via vai di persone è impressionante. Assordante in confronto al vellutato silenzio dell’hotel. E’ tutta una frenesia di parole. Un vociare disumano, inarticolato, come proveniente da un’unica bocca e un’unica testa. Me ne vado via, sempre più convinto. Che per Houellebecq i “neo umani” siamo noi. Consumatori consumati del suo codice (etico) a bare.
Gian Paolo Serino