Portavano le punte dei baffi intrecciate come fruste. Non ridevano da generazioni e le rughe segnavano gli anni sulla parte superiore dei loro visi. Invecchiavano per i pensieri, non per la gioia. Sapevano che gli ebrei li chiamavano edomei; loro stessi si chiamavano sale. Occorre molto tempo per consumare una manciata di sale, pensavano, ed erano pazienti. I loro simboli erano due: il segno dell’agnello e quello del pesce. All’agnello davano i dolci impastati con le lacrime, e al pesce l’anello fatto con con la farina, perché esso è la sposa dell’anima. Dovette passare molto tempo – quattro o cinque generazioni – prima che uno di loro dicesse: “Preferisco l’albero che parla; è l’unico che produce due frutti e in esso si può distinguere il silenzio del tacere. Perché l’uomo con il cuore pieno di tacere e l’uomo con il cuore pieno di silenzio non possono assomigliarsi…”.
Paesaggio dipinto con il té
Trad. Branka Nicija
Garzanti, 1991
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Un genio, un genio della letteratura. Basterebbe questo, e sarebbe d’avanzo. Un genio in grado di costruire grandi meccanismi letterari – di bellezza sorprendente – i cui nodi interni ricordano le connessioni e i link propri del mondo del linguaggio dei pc: eppure i suoi libri sono tutti nati negli anni ’80, quando era sconosciuta la possibilità di una lettura non lineare. Infatti, i suoi libri si possono leggere dall’inizio, ma anche dalla fine, o a partire dalla metà, senza mai perdere senso. Il suo Dizionario dei Chazari è stato tradotto in 80 lingue, ed è l’unico al mondo ad avere una versione maschile e una femminile, o ad avere un finale a cui si giunge seguendo gli indizi del cruciverba. Ma sarebbe limitativo confinare la sua opera alla forma, seppur vertiginosa. L’opera di Milorad Pavić è Opera.