Vito, il contadino, vaga senza sosta per una ferita. Dalla notte della morte di sua moglie strega, caduta dal cielo, una specie di maledizione lo costringe a vagare. «Senza tana, senza madre». Diventerebbe santo, cogli anni, imbrogliandosi con la natura, se non lo prendesse – come atto di ribellione alla sorte – un desiderio di morte. Quasi vestendo i panni di un novello Basile e immergendosi nel fondo dell’anima del Sud, in Ballata dei miracoli poveri (Hacca edizioni) Mimmo Sammartino sceglie di raccontare della sua terra il sostrato magico. Di Levi e Scotellaro, citato fin dall’esordio come punto di riferimento, coglie la vena più arcana e “misterica”: dietro la povertà, la sofferenza, la fame di una società apparentemente ripiegata e immobile, sceglie di battere il sentiero che conduce all’occulto, allo scatenamento inconsulto della fantasia, che funziona quasi come un esorcismo. Il risultato è un “cunto” che si muove tra la favola e il folklore, col ritmo e l’insistenza della litania, sorretto da una lingua sonora e rituale come un formulario magico. Dentro la lingua esplode una festa di aneddoti, di detti e di nenie, una rievocazione di figure e usanze che testimonia dell’urgenza di tramandare – o almeno far rivivere nel tempo del racconto – un mondo intero, coperto dalla polvere. A Vito il contadino, simbolo di questo mondo, non spetta la morte. Malgrado la cerchi, attraverso l’impiccagione o il volo nel vuoto, fallisce ogni volta. Interviene il fato, una superiore volontà, a salvarlo: a rivelargli che gli piaccia o no, la sua sorte terrena. Deve sopravvivere come una misteriosa, inquietante presenza nel bosco. «Uno spauracchio come l’orco, il mammone, i monacidd’». Deve sopravvivere e imparare a chiudere i conti con la vita ogni giorno, «perché ogni giorno è per noi comunque l’ultimo dei giorni»; deve comprendere che «le apparenze sono solo un bagliore di ciò che non è svelato». Gli spetta di incontrare viandanti solitari, briganti puniti dalla natura e dalla sorte, eremiti che scontano come lui il fio di una morte poggiata sulle loro coscienze. Il mondo dei briganti, pure in un contesto largamente fantastico, non è esaltato come contesto romantico; al contrario viene presentato, al pari di quello dei contadini, in tutto il suo crudo realismo, nella sua concreta e squallida ferocia. I briganti saccheggiano, rapiscono, uccidono, muoiono, trascinano innocenti nella morte. Per uno strano gioco del destino, che solo alla fine rivela il suo disegno, ai briganti si trova associato il povero Vito. E ne condivide, sommandole alle proprie, le miserie materiali e umane, sperimenta nella carne che «u monn è stort/ e si fac vita da can’,/ tien’ ragion’ chi tien’ tort’/ e ‘u rott’ porta ‘u san’». Lo fa assumendosi una colpa che non è sua, diventando da “capro” della sorte “lupo” per la gente, assetata di vendetta e stravolta dall’ossessione. Capisce che non può sottrarsi alle circostanze, agli errori (anche i più assurdi) del mondo storto, ma può sfruttare l’occasione per un percorso eroico – mezzo esteriore, mezzo interiore, comunque fantastico – di riscatto e sublimazione. La metamorfosi avviene attraverso il contatto con “masciare”, che sfiorano l’acqua di un bacile e osservano la danza dei morti ( e incrociano passato e futuro e tessono destini come fossero fili e loro Parche), attraverso l’apparizione di ninfe più vere del vero e l’amore di una dea: la signora della fonte che sgorga sui confini dell’oltremondo, padrona della pozione di erbe pestate che sospinge, con l’oblio, alle «acque di sotto», al mare in una prospettiva inedita, visto come un cielo dall’abisso di fondali «celesti e ctonii». Nuotando in sogno nel mare dei morti, Vito riceve dal drago guardiano una profezia di morte e rigenerazione, sulle prime incomprensibile, che poi inesorabilmente si compie nell’incandescente finale. Ballata dei miracoli poveri è un vortice di vicissitudini magiche, una tavolozza in cui i colori sono sostituiti dalle parole – gravide, sonore – e dai ritmi cadenzati del racconto, e ancora dagli eventi, gli intrecci che si precipitano addosso e risucchiano il lettore. Sammartino ha scritto un “cunto” basato sulla densità: le cento e rotte pagine del libro si moltiplicano in un “gioco” di metafore e rifrazioni che popolano di immagini la mente. Pagina dopo pagina la riempiono di un universo, pagina dopo pagina scavano un canale carsico che sbocca oltre il tempo e lo spazio, in una visione di assoluto.