Se in un’amicizia ci sono degli irrisolti, alla fine, come (e forse anche di più che) in amore, si arriva sempre al fatidico redde rationem.
Magari lo si è procrastinato per anni, decenni, ricorrendo a tutte le blandizie e ai non detti di questo mondo. Magari non ci si è addivenuti subito perché qualcuno ha fatto perdere le proprie tracce, passando la vita a nascondersi. O magari certi inciampi affettivi, sentimentali, impiegano semplicemente molto tempo a venir fuori.
Quel che è certo è che non si può fuggire per sempre. Non si può fuggire soprattutto dalla propria coscienza, che, anche a fronte di una vita rinnovata e magari completamente diversa da quella di un tempo, non la smette di mordere. Ma, molto più banalmente, a volte ci si mette di mezzo Sua Maestà il caso, che è in grado di far incrociare di nuovo due strade che sembravano diventate parallele all’infinito e che, invece, si ritrovano a sfociare in un’unica, inesorabile direttrice pronta a guidare le persone là dove il destino ha deciso.
Lo sa bene Mark Renton, che in piena crisi da stress e stravizi dovuta alla sua frenetica attività di agente di deejay sulle due sponde dell’oceano, si ritrova faccia a faccia, nientedimeno che su un volo diretto in California, con il suo peggior incubo vivente ed ex fraterno amico, Franco Begbie. Dopo quello che era successo alla fine di Trainspotting e dopo il fortunoso salvataggio ottenuto nel film Trainspotting 2, la resa dei conti per lui sembrerebbe inesorabilmente arrivata. Invece il già terribile galeotto scozzese, dopo essere diventato uno scultore e pittore di grido, come abbiamo letto nell’Artista del coltello, ha imparato a dissimulare la propria incontenibile furia distruttrice e non solo si guarda bene dal massacrare in alta quota l’ex socio per avergli rubato la sua parte di soldi “guadagnata” con il traffico di eroina del già citato Trainspotting, ma addirittura gli tende la mano invitandolo a riallacciare i rapporti. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, nella amata e odiata Edimburgo torna a farsi vedere il bel Simon Williamson, “Sick Boy”, al quale il sopraggiungere della mezza età sembra non aver tolto un briciolo di cinismo e voglia di conquiste copulatorie. E sempre per le strade all’ombra del castello di re Ebrawce, riappare anche il buon Danny “Spud” Murphy, dei quattro storici amici di gioventù quello messo peggio, visto che gli incessanti abusi di alcol e droga lo hanno ridotto ad essere poco meno che un barbone.
Intrecci inaspettati e, soprattutto, l’occasione di una mostra nella propria città natale dell’artista-criminale Begbie, che ormai si fa chiamare Jim Francis, fanno sì che il poker si ritrovi nello stesso posto come non succedeva da tanti anni. La capitale blu-crociata è diventata ben diversa da quella in cui avevano scorrazzato un secolo prima, è vero, ma loro? Sono davvero cambiati come sembrerebbe o vorrebbero far credere? Certo che no! E basterà che una sciocca goliardata di “Sick Boy” si trasformi in una imprevedibile sequenza di disastri per far sì che, dopo oltre un quarto di secolo, tutti i nodi tornino al pettine. E…
No, neanche una parola di più sulla storia raccontata dall’insuperabile Irvine Welsh in questo Morto che cammina (Guanda Editore, Narratori della Fenice, 432 pp, € 19,50)! Perché se è vero che dopo 25 anni abbondanti e diverse starring in vari romanzi sappiamo molto degli antieroi creati dallo scrittore scozzese, è anche vero che soltanto in queste pagine si farà luce su alcuni aspetti delle loro vite che ci aiuteranno a comprendere in modo finalmente esaustivo la natura dei loro particolari legami. Senza contare tutta una serie di nuove, intriganti informazioni grazie alle quali potremo riammirarli e ribiasimarli in modo assai diverso rispetto al passato. Ma questo nuovo romanzo non è semplicemente una roba per “iniziati”: infatti, anche se astratto dalla sua precedente produzione potrebbe perdere qualcosa in antefatto per un nuovo lettore, la felicità di costruzione dell’intreccio e la maestria nel sovrapporre i differenti livelli d’azione dei personaggi principali ne fanno una creatura in grado di camminare serenamente sulle sue sole gambe. Come in Colla e appena meno bene in Porno, anche in questo Morto che cammina Welsh riesce a creare un grandioso affresco corale dei giorni nostri, sfruttando le tangenze esistenziali dei protagonisti per mettere in piedi un meccanismo narrativo praticamente perfetto, in cui ogni singolo tassello sembra andare al suo posto concorrendo a determinare una struttura a prova di sbavatura. Per di più, come si accennava prima, in questa sua ultima fatica, il bad boy della letteratura britannica, attraverso una serie di fugaci accenni o più corposi flashback del passato di Renton e soci, ricostruisce definitivamente tutto il loro passato, consentendo ai suoi fan più sfegatati di avere finalmente una panoramica completa su tutto quello che, nel corso di quattro decenni e oltre, li ha uniti e allontanati, e scrivendo (probabilmente) l’ultimo capitolo di un’epopea picaresca che in queste pagine trova la sua definitiva sublimazione. Se ciò non bastasse, a scorrazzare i quattro in giro per la città natale viene chiamato anche l’immarcescibile “Gas” Terry Lawson, rigettando così nella mischia anche il “tipaccio” forse più simpatico e amato tra quelli nati dalla penna di Welsh e regalando, grazie alle irriverenti prodezze verbali e non del tassista-pornostar, un ulteriore motivo di interesse e di godibilità.
E, ancora, se a tutto questo si aggiunge che l’adrenalinico stile del figlio prediletto del Leith in questo libro raggiunge, grazie anche alla meravigliosa traduzione di Massimo Bocchiola, il suo esito forse più felice di sempre, oscillando tra i consueti, sboccatissimi fuochi d’artificio e molte fuoriuscite liriche di rara delicatezza, nessuno, dopo averlo letto, potrà negare di aver avuto a che fare non soltanto con uno dei lavori migliori di Welsh, ma con un’opera destinata a resistere e ad aumentare di valore nel corso degli anni.
In due parole: assolutamente imperdibile.