Le domande e i ricordi: “Mi attende un compito nuovo, e non so come affrontarlo. Prima tutto sembrava ovvio: bisognava custodire i versi e raccontare quello che ci era accaduto. Si trattava di avvenimenti indipendenti dalla nostra volontà. Come tutte le ergastolane, le recluse, le prigioniere, pensavo soltanto all’epoca in cui avevo vissuto e, insieme a quelli come me, ero tormentata da una sola, unica domanda: come era potuto accadere tutto ciò, come eravamo arrivati a quel punto?”
Prigionieri della storia: “In questo melmoso guazzabuglio scomparve la parola «io». L’«io» era diventato qualcosa di cui quasi vergognarsi, un argomento proibito. Chi osa parlare del proprio destino, chi ardisce lamentarsene, quando il destino di tutti è questo?…(…) Un giorno, a causa di questo famigerato «io», feci una scenata anche ad Anna Achmatova. Mi aveva pregato di trovare una sua poesia in base all’ordine alfabetico e, en passant, aveva aggiunto che molte cominciavano con il pronome ja, «io». A quel punto persi le staffe e, di punto in bianco, iniziai a dimostrarle come il suo peggior difetto fosse proprio questa «egolatria». Di solito si irritava e dava in escandescenze con facilità, ma quella volta non provò nemmeno a difendersi. La sicurezza che ostentavo nel sostenere che nella parola «io» ci fosse qualcosa di proibito, di infamante addirittura, dovette convincerla.”
Arte e crudeltà: “La crudeltà non appartiene a un vero artista. Non ho mai capito come Majakovskij, che senza dubbio lo era, abbia potuto dire cose tanto brutali. È probabile che accordasse il proprio animo a quelle espressioni, convinto che fosse una dimostrazione di modernità e di coraggio. Debole di natura, allenava la propria anima gracile a stare al passo con i tempi e per questo l’ha pagata cara. Mi auguro che a rispondere verranno chiamati quelli che lo hanno tentato, e non lui.”
È in libreria Speranza abbandonata di Nadežda Mandel’štam (Edizioni Settecolori 2024, € 34, pp. 880) con traduzione e cura di Valentina Parisi e Marta Zucchelli e introduzione di Paolo Nori qui pubblicata in estratto.
Nata nel 1899, Nadežda Jakovlevna Chazina incontrò Osip Mandel’štam nel 1919 e lo sposò nel 1922. Dopo la morte del marito, dedicò la sua vita a preservare la sua eredità poetica, nonostante le continue persecuzioni del regime stalinista che la costrinsero a spostarsi lungo i confini della patria. Sopravvissuta alle “purghe” e al “terrore”, il disgelo kruscioviano le permise di tornare a Mosca, dove visse fino alla morte nel 1980 e scrisse il suo capolavoro. Questo lavoro offre un resoconto dall’interno delle sofferenze e delle tragedie del leninismo e dello stalinismo, delle speranze deluse e delle promesse tradite del comunismo, con una profondità che neanche Solženicyn e Grossman hanno raggiunto.
Speranza abbandonata, mai tradotto integralmente in italiano, conclude le memorie di Nadežda Mandel’štam, iniziate con Speranza contro speranza. Questo libro racconta l’amore assoluto di Nadežda per suo marito Osip Mandel’štam, il grande poeta russo del Novecento, e offre ritratti vividi di molte figure culturali dell’epoca, come Anna Achmatova, Aleksandr Blok, Boris Pasternak e altri. Ambientato in un periodo segnato dalla Rivoluzione, dalla Guerra civile e dal Terrore staliniano, il memoir è un viaggio e un dialogo intenso con la storia tragica e grandiosa del loro tempo.
Sono pagine in cui la sofferenza incontra il bisogno di comprendere fino in fondo la propria umanità, dall’esistenza come esseri sociali fino alla profondità delle emozioni più intime.
In questa avventura l’autrice è guidata dal ricordo del marito ormai defunto che diventa un “tu” con cui confrontarsi per custodirne e diffonderne l’opera straordinaria.
Carlo Tortarolo
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«IO»
I
Mi attende un compito nuovo, e non so come affrontarlo.
Prima tutto sembrava ovvio: bisognava custodire i versi e raccontare quello che ci era accaduto. Si trattava di avvenimenti indipendenti dalla nostra volontà. Come tutte le ergastolane, le recluse, le prigioniere1, pensavo soltanto all’epoca in cui avevo vissuto e, insieme a quelli come me, ero tormentata da una sola, unica domanda: come era potuto accadere tutto ciò, come eravamo arrivati a quel punto?… Persa in queste riflessioni dimenticavo me stessa e il mio destino, e addirittura non ricordavo che stavo parlando di me, non di qualcun altro. D’altronde il mio destino non aveva nulla di straordinario. Le persone come me ciondolavano in quantità inverosimile ovunque: creature mute, intimorite, con e senza figli, impiegatucci timidi e diligenti, impegnati ad accrescere incessantemente le proprie competenze per non perdere il posto, intenti ogni anno a studiare per l’ennesima volta, nei circoli filosofici, il Quarto capitolo2 e la storia della scimmia 3 che, avendo imparato a distinguere la mano destra dalla sinistra, si era fatta uomo. Un ruolo di un certo peso in questo processo evolutivo lo aveva avuto anche un’alimentazione ricca di vitamine e proteine, nutriente e gustosa, cosa di cui noi avevamo perso anche il ricordo. In compenso avevamo il lavoro, e ce lo tenevamo stretto perché senza era la fine… Una collega della SAGU, o Università dell’Asia Centrale, donna che io consideravo decisamente fortunata dal momento che disponeva di un alloggio tutto per sé, una sera, mentre tornavamo insieme da un seminario di filosofia, mi confessò che ogni autunno provava l’imperioso bisogno di rileggere il Corso breve e la Dialettica della natura perché da quelle letture traeva energie sufficienti per l’intero anno accademico. Aveva una sessantina d’anni e tremava all’idea di essere cacciata per «anzianità di servizio». Prima di Chruščëv le pensioni erano un’assoluta presa in giro, e io capivo benissimo l’origine del suo entusiasmo. Nel migliore dei casi mi attendeva la stessa sorte – vecchiaia, filosofia, entusiasmo – sempre, beninteso, che mi permettessero di lavorare fino all’ultimo, di farmi in quattro e di comprendere la saggezza dei nostri governanti. La sola differenza tra noi due consisteva nel fatto che io, sentendo avvicinarsi la fine, avrei lanciato in mare una bottiglia sigillata, mentre lei le sue bottiglie le conservava vuote nella dispensa per i giorni bui. Niente lasciava presagire quello che sarebbe accaduto in seguito. Vivevamo nascondendoci, senza speranza alcuna. Il regno millenario era appena all’inizio, ma all’uomo non è concesso vivere un tempo così lungo.
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1 Cfr. A. Achmatova, Poema bez geroja [Poema senza eroe], Parte seconda, Intermezzo, XXIII.
2 Il quarto capitolo di cui si parla è quello attribuito a Stalin e dedicato al materialismo dialettico del Corso breve di storia del Partito Comunista dell’Unione sovietica, pubblicato nel 1938.
3 Riferimento al saggio di Friedrich Engels Il ruolo del lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, scritto nel 1876 e poi incluso nella Dialettica della natura, opera incompiuta e pubblicata postuma a Mosca nel 1925.
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