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Nadia Fusini. Vivere nella tempesta

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Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Leopardi, L’Infinito

Naufragare senza dolcezza, questa l’esperienza della morte per acqua, il panico che scatena l’immensità dell’elemento liquido, senza confini: un eterno cadere, rotolare giù senza mai trovare il fondo. È la tempesta dell’anima, del vivere, la paura del cuore, il vacillare della mente che si sperde e non trova luogo in cui consistere né approdo e punto di partenza.

Così la lettura della Tempesta, l’ondoso discorrere di Nadia Fusini che si fa orecchio e lo apre a mille riverberi, infiniti echi, flussi e riflussi della coscienza che rimettono all’acqua la sua potenza, la onorano, le concedono il tempo di un’interminabile dondolio che, nelle parole, traduce e rimodula senza posa le immagini di una salvezza che arriva dalla disperazione, dal fallimento della vita che cede e vien meno e lì ritrova, in quell’elemento amniotico, la sua capacità di rinascita, un moto proprio, un moto dolce che conduce alla seconda chance, a una seconda nascita nel perdono, nella grazia di un incontro con la cosa di tenebra- a thing of darkness– che è l’altro, l’altro da sé che si guarda e ci guarda (come l’immagine dello specchio o le parole di Nietzsche: se guardi a lungo nell’abisso, prima o poi l’abisso guarderà in te; in un’andata e ritorno dello sguardo che per guardare fuori si introietta, si ritorce, si ripiega in sé).

Prospero, duca spodestato di Milano, vuole vendetta per il passato ma la vendetta richiede un controllo accurato dell’evento, degli eventi. Prospero si sottomette all’esigenza e da cultore della arti “liberali” si fa mago-tiranno. Ma è per uno scopo: per raddrizzare le storture del mondo, perché il mondo è uscito dai suoi cardini, ricorda Amleto. E Prospero è pronto a rimetterlo a posto, redress, raddrizzarlo. E da reietto si fa reggitore dei destini altrui, abile stratega, organizzatore perfetto. Ma la tempesta non risparmia neanche lui perché dopo aver liberato il tempo e l’uomo (o chi ne ha avuto la capacità, perché non tutti sono disponibili all’ascolto dell’altro e della propria coscienza: il male esiste e non desiste), compiuta questa grande opera, è lui a dover naufragare- un po’ più dolcemente, dopo la metamorfosi in un elemento più ricco e strano (rich and strange)-, di perdersi e disperdersi, di debordare: spogliandosi dei suoi abiti ne fa fuoriscire il corpo, una nudità che è un surplus. E un’implorazione.

Certo, spezzando la sua bacchetta magica, la consegna allo spettatore, o al lettore, che d’ora innanzi diventerà a sua volta mago e, se vorrà, farà rigonfiare le vele per far salpare le navi che porteranno gli attori al godimento e alla consolazione dell’applauso, l’approdo, continuando l’opera di trasformazione rendendo vera la finzione, trasformativa a livello dell’anima.

“A teatro è in mano nostra l’applauso: applaudendo potremo graziare l’attore, il regista, il personaggio, e licenziare lo spettacolo. Così facendo, ci istruisce Shakespeare, siamo per l’appunto noi spettatori a legittimare lo spettacolo, a dichiarlo vero e insieme illusorio. Se l’attore è tornato in scena mostrandosi così, nudo e crudo, senza la maschera, è per restituirci la verità esposta nell’illusione; anzi, la verità dell’illusione. E noi, partecipando all’illusione, osseveremo quel che accade in scena, con occhi spirituali. E comprenderemo che la tempesta è accaduta e accade ancora e sempre dentro di noi”.

Perché leggere e rileggere la Tempesta, per Fusini, significa avvicinare la conchiglia all’orecchio per sentirvi risuonare il mare, ma ciò che sente è in realtà il pompare del proprio sangue. Una conchiglia che è ricordo e deposito dei libri migliori, il loro sedimento, ricordo e deposito di vita che si pone domande e che non riceve risposte ma rimanda quelle domande e le fa echeggiare ritmicamente con l’andare e venire delle onde.

“Se la vita ha una base su cui poggia… allora la mia senza dubbio poggia su questo ricordo. Quello di giacere mezzo addormentata, mezzo sveglia, sul letto nella stanza dei bambini a St. Ives. Di udire le onde frangersi, uno, due, uno, due… dietro la tenda gialla. Di udire la tenda strascicare la sua piccola nappa a forma di ghianda sul pavimento quando il vento la muove. E di stare sdraiata e udire gli spruzzi e vedere questa luce e pensare: sembra impossibile che io sia qui”, scriveva Virginia Woolf in Momenti d’essere.

Le onde (proprio per la traduzione del romanzo Le onde della Woolf, Nadia Fusini ha vinto il premio Mondello 1995), i riflussi, il dubbio, e lo stupore: lo stupore di vedersi, percepirsi come esseri umani, lo stupore che è in Miranda, full of wonder, lo stupore che è grazia e miracolo, ed è anche storia al femminile- her-story, dice Fusini, giocando con le possibilità della lingua inglese-, quello stesso stupore che prova e vive Elisa, la protagonista muta di The shape of water, di Guillermo del Toro, trionfatore agli Oscar, e già vincitore del Leone d’Oro a Venezia.

È un mondo di meraviglia, quello di Elisa, non di privazione, il favoloso mondo di Elisa, una meraviglia che prova e vive già da sé ma soprattutto nell’incontro con l’altro, il mostruoso- che, non a caso, è un dio dell’acqua e ha poteri taumaturgici, può quindi trasformare, guarire, riportare in vita. Anche Elisa può accedere alla seconda vita, una vita che porta incisa sulla pelle del collo, come premonizione e destino, non solo come mutilazione ma come graffio che è segno di un futuro marino (quel taglio della laringe che la rende muta e che è la prefigurazione delle branchie che dovrà acquistare), anche lei, dicevo, accede alla seconda chance tramite annegamento: prima quello simbolico, nella scena dell’unione d’amore con il mostro in un bagno allagato- dobbiamo crederlo possibile-, che se affoga la stanza, si infila anche tra le assi del pavimento che fanno da tetto al cinema- la vita dello schermo si nutre e si fa contaminare dalla vita che accade appena un poco più su, al piano di sopra, nella vita vera che è ancor più strabiliante, se vogliamo; e poi quello dell’immersione nel canale che porta al mare, allo sconfinamento, dove avviene la rinascita e la metamorfosi completa, perché non è lei a sentire la creatura come mostro, sono gli altri, quelli che dalla grazia non sono toccati e che devono quindi morire.

Bisogna correre il rischio del naufragio. E lo deve correre ogni Prospero-autore.

“Potremmo anche intendere il gesto come l’affermazione dell’incontrastata potenza metamorfica di un corpo di parole che sfugge al possesso di chi l’ha concepito e risponde di sé soltanto a chi legge e si plasma al suo desiderio. In ciò incarnando alla perfezione la volontà sacrificale di un autore, che nel caso di Shakespeare, nel suo testo è pronto a morire, perché esso possa vivere nel lettore. È così che un poeta come John Keats, o più tardi un poeta come T.S. Eliot accostano all’orecchio la Tempesta di Shakespeare. Né Keats né Eliot hanno dubbi: l’esperienza creativa è la stessa cosa di una vocazione all'”estinzione della personalità”; il “sacrificio di sé” è il passaggio necessario, inevitabile, grazie al quale l'”io” del poeta si immola, perché l’opera nasca”, scrive Fusini.

Una vocazione che ha fatto sua P.B. Shelley che ha trovato la morte per mare, su una goletta di nome Ariel, che è stato seppellito a Roma, al cimitero acattolico del Testaccio, e sulla cui lapide sono incisi i versi della Tempesta:

Nothing of him that doth fade / but doth suffer a sea change / into something rich and strange”, Tutto di lui destinato a svanire/ subisce ora dal mare un mutamento/ in qualche cosa di ricco e di strano (trad. di S. Quasimodo).

Nadia Fusini, Vivere nella tempesta, Einaudi, 2016, 202 pp., 18,50 euro)

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