Non avrei voluto ammazzarlo ma il suo sguardo ha incrinato la mia fragilità. Era l’unico uomo che riusciva a farmi sentire piccola e indifesa. La bambina che avevo tentato di cancellare, insieme alla purezza che mi ero impegnata a sporcare con ossessiva metodicità, era ricomparsa in quella stanza mentre gli comunicavo che non avrei più fatto parte di quel gioco. Lui mi ascoltava distratto, come se le mie parole giungessero prive di qualunque significato. Non era di certo il tipo d’uomo che permetteva a qualcuno di decidere al suo posto. Sono stata l’imprevisto che non aveva considerato. Sono stata l’imprevisto che io stessa non avevo considerato.
Quando gli ho inferto il colpo finale ho pensato che eravamo la stessa malattia: il desiderio. Il mio desiderio è stata una bestia famelica che ha strappato dai miei giorni qualsiasi pazienza. Non si è fermato mai. Vorrebbe azzannare ciò che non c’è e nel frattempo si nutre di attese estenuanti. Mi distrugge ma non lo fermo. Mi divora ma lo nutro con altra carne.
Ci sono ferite profonde che sanguinano al buio, quando nessuno le può vedere.
Ci sono silenzi che non andrebbero riempiti con nulla, aborti di parole mal dette che è meglio non ascoltare. Per fortuna alcuni mali non si curano e bruciano così forte l’anima da ricordarci di averla.
In quel buio eravamo in due e, nonostante lui fosse morto, io ero quella che stava peggio. Era un giocatore esperto: neanche la morte è riuscita a prenderlo in contropiede. Avevo molto da imparare e non l’ho capito, come non ho capito molte altre cose nella mia vita. Colpa del cuore che ha sempre ostacolato il passo della mente. Lui, invece, sembrava neanche avercelo. Doveva aver considerato tutto, anche ciò che io non avrei mai pensato di fare. Plasmata nella parola di Dio che mi aveva assolta e condannata nello stesso istante, non avrei mai pensato prima di uccidere un uomo. Probabilmente lui mi conosceva meglio di Dio e aveva preso le giuste precauzioni. Il mio nome non sarebbe mai stato associato al suo per non sporcarne la reputazione, neanche da morto. Così ha sguinzagliato i suoi schiavi per far pagare a qualcun altro ciò che io avevo il diritto di pagare. Mi ha lasciato senza alcuna espiazione, pulita dal peccato, senza un atto di dolore sono tornata a casa con una menzogna in più. Come faccio a reclamare la mia colpa?
Il gioco è finito. Con lui è finito tutto. Lui che era stato il mio traghettatore verso una vita che mai avrei potuto permettermi, lui che aveva visto in me la sua stessa mania di potere e controllo, lui che per me diventava uno schiavo. Il mio schiavo. Oggi togliendomi la colpa ha serrato per sempre i lucchetti delle mie catene.
Ho chiamato mia madre come tutte le sere, qualunque cosa accada il rituale del “come stai” senza ascoltarne la risposta è diventato una scusa per tenere a bada la frustrazione di non essere stata una brava figlia. Dopotutto lei non è stata una brava madre, le ho solo restituito il favore. Mentre mio padre, che mi ha sempre amata con una piccola parte del cuore che era riuscito a sottrarre dagli artigli di sua moglie, gelosa di me e di tutto ciò che potesse oscurare lei, è morto sei mesi fa.
Non ho fatto in tempo. Questo il mio più grande rimpianto: per lui avrei dovuto diventare libera, a lui avrei dovuto restituire la libertà che solo la verità può dare. E invece è arrivato troppo tardi il coraggio di guardarmi allo specchio e vedere riflesse tutte le mie cicatrici. Mi verrebbe voglia di tornare indietro, indossare nuovamente i tacchi a spillo e il rossetto rosso, ma sento che devo fermarmi.
Per soffrire ci vuole tempo. Dedizione. Non si può soffrire di fretta.
Per soffrire ci vogliono lacrime nuove, non riciclate, non rimasugli di vecchi dolori.
Per soffrire ci vuole un respiro pieno da mozzare, da interrompere, da ascoltare di notte, ansimante, nel silenzio di una stanza vuota, spettatrice inerme.
Per soffrire ci vuole una gioia immensa da distruggere, una felicità da fare a pezzi, un futuro da dimenticare.
Stamattina mi sono svegliata con la sensazione di sentire il suo profumo addosso. Stamattina il foulard che mi aveva regalato era sul tappeto ai piedi del letto. Lo guardavo dall’alto verso il basso come faceva lui con me quando non giocavamo, quando riprendeva la sua vita da uomo potente e dimenticava quello per cui viveva veramente: me.
Due vite, le nostre vite, legate da un desiderio perverso di rivalsa. Nulla che potesse lontanamente avvicinarsi all’amore. Eppure quando ho realizzato che non lo avrei mai più rivisto ho sentito un vuoto attraversarmi le viscere. La solitudine di cui erano fatte le nostre esistenze ci aveva legato nella frustrazione di non aver potuto avere l’unica cosa che ci avrebbe salvato: l’amore.
“Nessuno potrebbe amare le persone come noi” ci dicevamo quando avvicinavamo le nostre sofferenze. Nei suoi occhi vi era la profondità del mare, e in quella profondità a volte mi immergevo.
Non lo amavo. Non mi amava. E nonostante questo eravamo la cosa più vicina alla salvezza. Due abissi che in alcuni rarissimi istanti diventavano luce. Due vite che neanche il destino ha saputo dividere, ho dovuto pensarci io.
Bisogna amarsi, non perdere tempo, che non lo si sa di certo quando il nostro amore andrà via. Quando una mattina o in piena notte ci sveglieremo con il vuoto di un non ritorno. Che l’inferno è questo: vivere d’amore a tempo determinato; farsi distrarre dalla vita e non sapere quando sarà l’ora dell’ultimo bacio.
Quando ho sentito il suo battito abbandonare il corpo ho avvicinato le mie labbra alle sue, volevo respirare con lui per l’ultima volta. Distaccandomene ho compreso che anche per me quello sarebbe stato l’ultimo respiro.
Non ci amavamo perché avevamo bisogno di qualcosa di più forte che unisse la nostra disperazione. La colpa, l’ossessione, il sentirci diversi. La paura di non essere compresi, o di rimanere per sempre soli. Il terrore di perderci senza mai esserci trovati. O semplicemente il dolore di non essere stati in grado di amarci e andare oltre.