Andrea Tomaselli nasce a Catania nel 1972. Lì si laurea in Lettere moderne con una tesi su Danilo Dolci. Nel 2001 si diploma in tecniche della narrazione al Master biennale della Scuola Holden. Vive a Torino dove lavora alla Scuola Holden come docente di scrittura, drammaturgia e regia, e negli istituti professionali come docente di Lettere. Ha pubblicato il racconto ‘La peste dell’anno uno’ (Feltrinelli, 2014), il libro di poesie ‘Versi erotici nel deserto’ (Eretica edizioni, 2023), il romanzo ‘Bodies, trilogia del poliamore’ (Eretica edizioni, in corso di pubblicazione). Regista dello spettacolo teatrale ‘La Crepanza’ dei Maniaci d’Amore. Ha curato regia e sceneggiatura dei lungometraggi ‘Zooschool’ (2015) e ‘Kyo’ (2019) (entrambi distribuiti su Amazon Prime Video). Al momento sta lavorando al suo terzo film, ‘Di pietra lavica’ (selezionato al Biennale College 2019 della Biennale di Venezia).
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Sei un artista a tutto tondo: regista, sceneggiatore e romanziere. Con dei lavori riconosciuti e apprezzati: quanta vita vissuta finisce nelle tue storie, quanta drammaturgia del “non detto, ma ben evocato” – ad opera degli autori che ti hanno formato – resta fuori?
Quello che racconto è sempre originato dal mio vissuto. Per me la sincerità è il valore primo di una narrazione. Credo che si inizi a scrivere ‘bene’ vivendo bene: vivendo con schiettezza, onestamente, innanzitutto con se stessi (se sei onesto con te stesso, difficile tu non lo sia con gli altri). Una vita vissuta in questo modo ti consegna della materia prima (per le tue narrazioni) che è pregiata, che è originale.
Lo ‘show don’t tell’, d’altronde, come qualsiasi altra tecnica di scrittura, è soltanto una tecnica (e comunque una), e credo che continuare a giocare con la tecnica, soprattutto alla luce di questi ultimi anni che si ostinano a consegnarci tragedie, sia da irresponsabili: anche chi si occupa di formazione in ambito di narrazione deve impegnarsi in percorsi in cui la tecnica sia soltanto una parte della pratica, impegnarsi in modo che chi voglia narrare non creda di poterlo fare senza sfidarsi come essere umano, senza interrogarsi in quanto persona (per narrazioni soltanto di servizio, vanno benissimo le I.A.)
Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di artigianato letterario, qual è la materia primaria da cui attingi quando narri una storia destinata al grande pubblico o al fruitore più solitario?
La materia prima per me sono le emozioni, l’epicentro di ogni mia narrazione è il cuore. Non a caso i miei ultimi due libri (le poesie di ‘Versi erotici nel deserto’ e il romanzo ‘Bodies-Trilogia del poliamore’) hanno come tema centrale proprio l’amore: come si ama oggi, come si può sognare di amare, in che modo ci costringono a farlo, quanti tipi di amore esistono, quanti ne ignoriamo.
A volte mi commuovono anche le idee, l’intelligenza, però se devo essere sincero l’adorazione primigenia che mi porta a raccontare riguarda il corpo, la materia. Sono un innatista, credo che solo nella materia (animale, vegetale, oceanica, terrestre) si possa incontrare il sacro; anche per questo spesso in ciò che racconto c’è erotismo, e anche quello che viene volgarmente definito ‘pornografia’, perché soffro per tutti i secoli in cui questa materia è stata repressa, censurata, e trovo sia un compito di noi contemporanei restituirle dignità e con essa la possibilità di essere narrabile.
Quali sono gli autori classici della letteratura di un tempo da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi con cui sei più in sintonia?
I miei classici sono Giovanni Verga, D. H. Lawrence, Eugenio Montale, George Orwell, Thomas Bernhard, J. D. Salinger, Rilke, P. P. Pasolini, Milan Kundera, Charles Bukowski, Philip Roth, Roberto Bolano.
Tra i viventi Sara Benedetti, Monica Acito, Mariangela Gualtieri, Dario Voltolini, Chandra Livia Candiani sono tutte penne che, per motivi diversi, sento affini.
Che rapporto hai con le serie tv e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi due medium narrativi?
I fumetti sono il mio primo grande amore. Iniziai, da bambino, con l’epoca d’oro della Marvel (Kirby, Romita, Andru). A quattordici anni scoprii la rivista mensile Corto Maltese che mi diede modo di conoscere i grandi autori: da Pratt a Crepax, da Manara a Micheluzzi, da Toppi a Battaglia, da Frank Miller ad Alan Moore. Con la serialità televisiva ho un rapporto non facile (troppo amore per il cinema). Ci sono però le eccezioni, a volte perché più che di serie si tratta di film molto lunghi (prima stagione di True Detective ad esempio); altre volte perché la serialità è comunque contenuta, per numero di episodi e stagioni (vedi Leftovers e Black Sails); altre ancora perché nonostante di serialità vera si tratti, la fascinazione dei personaggi e del loro mondo (Sons of Anarchy fra tutte) è talmente potente da farmi accettare lo stillicidio delle infinite puntate e dell’inevitabile sensazione di dejavù che si affaccia a tratti dalla visione.
Ogni docente di scrittura immagina un allievo ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo studente ideale come pensa, cosa scrive, come si muove nel mondo?
Il mio studente ideale è colui che viene portato alla narrazione solo da urgenze intime; che riesce a essere in ascolto delle critiche ma allo stesso tempo non si fa influenzare dai giudizi; che si lascia condizionare dalle mode; che sa lavorare con gli altri e gioire dei successi degli altri. Nel mondo si muove sincero: scrive come sente, vive come scrive.
Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie?
Ho giornate lavorative troppo diseguali per avere una mia routine legata alla scrittura. La costante però e che non appena ho almeno un’ora di tempo (ma nelle fasi veramente caotiche me ne faccio bastare mezz’ora) mi metto a scrivere. Mi piace avere sempre più progetti aperti contemporaneamente; in questo modo in base al giorno, al momento, a come mi sento, è difficile non ci sia neanche un file che possa aprire per lavorarci. Non è un problema dove io sia: in un rifugio in cima a una montagna o nel caos di un centro commerciale riesco comunque a concentrarmi. Col tempo ho imparato a essere indulgente con me stesso e ad accettare che è meglio scrivere due pagine brutte al giorno che passare un giorno senza scrivere.
Quale tipo di storia non scriveresti mai?
Guerra, commedia romantica, investigazione, e tutto ciò che è definito postmoderno, o derivato dai videogiochi.
Ti andrebbe di raccontarci quanto ti sei allenato, in tutti questi anni, per diventare un narratore di talento?
Oltre quanto sia in grado di immaginare chi per lavoro non scrive. Ho il pc stipato di soggetti, sceneggiature, romanzi, racconti che non hanno trovato uno sbocco editoriale o produttivo. Questo avrebbe potuto generare un cumulo insostenibile di frustrazione, una velenosa sensazione di fallimento, avrebbe potuto spingermi ad abbondanare la scrittura: e invece io guardo tutti i lavori rimasti ai blocchi di partenza e vedo chiaramente quanto siano stati utili a trovare la mia voce, ad affinare il mio stile; le tante storie a cui ho lavorato e che non hanno trovato una strada sono state preziosissime per raggiungere la qualità che ho raggiunto nelle storie che invece sono state pubblicate o sono diventate dei film.
In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché scrivi storie?
La verità è che non poteri farne a meno. Avverto la soietà in cui viviamo talmente falsa e disumana che non potrei mai limitarmi a viverla; devo assolutamente, e di continuo, ripensarla, reinventarla, ri-raccontarla. Sì, io racconto per cambiare il mondo.
Questo è un mondo dove sembra – ad oggi – aver vinto lo schermo, a discapito della pagina scritta. Eppure, lo dico da libraio, c’è chi resiste. Ti andrebbe di dirci perché leggi (in questo mondo complesso e poco libero) ancora libri?
Perché è un piacere unico. L’estasi che mi regalano la prosa di Bolano e i versi di Rilke, le strisce stampate su carta di Jack Kirby, è un tipo di estasi completamente diversa da quella che mi può offrire un film o una serie (non troppo lunga!). Non migliore, ma diversa, unica. In cosa? Nel fatto che si svolge in silenzio, che non la posso condividere con nessun altro che non sia me stesso, che tutto accade nel buio della mia mente. Leggere significa ascoltare una voce parlata anni prima, secoli prima, una voce che qualcuno ha nascosto nella carta, perchè il tempo non fosse in grado di trovarla.
Nel cinema quello che conta è la materia, ed è lì, davanti ai nostri occhi.
In un libro quello che conta è la voce, e non c’è, noi non l’ascoltiamo, ma per una strana magia inventata dagli uomini, la conosciamo.