Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) è il nuovo libro di Gianluca D’Andrea, uscito per Industria&Letteratura 2021 nella Collana Poetica diretta da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto con la postfazione di Fabio Pusterla. Come già in passato, l’autore si confronta con l’estasi della scrittura che esce sempre fuori dai propri limiti narrativi e poetici e si fa saggio ma sui generis. Assaggio. Tentare il cammino nel territorio più sconosciuto e estraneo: quello che ci appartiene, l’ombra interiore che diventa paesaggio lunare di un’isola nelle retine dell’infanzia. Il libro articola le quattro stagioni in 40 componimenti suddivisi in gruppi da 10 e come la transizione della stagione in un’altra è un lento dividersi di cromatismi e suoni che pur unisce, allo stesso modo la scrittura stabilisce legami sottili e profondi tra una stagione e l’altra, tra una stasi e la successiva. Estasi, appunto. L’andamento è frattalico sempre in circolo attorno al buco nero, la caverna, l’abisso, la maschera che copre il buco-bocca, e sempre preciso nel servire l’appiglio, l’aiuto al mancamento: i padri, le madri, i testi in esergo e dentro al foglio dei maestri. La catastrofe sociale e ambientale subisce una metamorfosi: la fine è un mondo nuovo e la scrittura pare farsi protesi potenziante di un corpo bio-sociale in sfacelo. La quattro stagioni sono musica con catarsi finale. Quadrifarmaco del nuovo nulla post-pandemico.
Gianluca Garrapa
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«L’aria s’ispessiva in blocchi grigi sparpagliati tra le pareti cavernose.» È un estratto da Nelle profondità III dalla seconda sezione Estate. Qui come altrove, il buco e la spirale del titolo che evoca un abisso, un vortice. La lettura trascina da una materia scomposta fino a un nuovo modo e mondo di intendere il rapporto della parola con l’ambiente. Il titolo è anche un’evocazione dell’inferno, dell’interno, del buio di questa pandemia. Che rapporto esiste tra la tua scrittura e il meccanismo sociale e ambientale intorno?
Di scambio continuo. Ne parlavamo proprio insieme in un’altra intervista di un po’ di tempo fa (alla quale mi permetto di rimandare: Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”). In quel caso discorrevamo del segno linguistico e della possibilità o meno che esso possa restituire una referenza; adesso la tua domanda sembra confermare che un’occasione di contatto tra parola e mondo (traduco così il tuo “meccanismo sociale e ambientale”) esista, anzi, sembra proprio necessaria.
Nella spirale, nasce e si sviluppa durante il primo lockdown, in un’atmosfera di reclusione comunque coatta, per quanto giustificata dall’emergenza sanitaria. È una specie di diario del mutamento, perché se partiamo dal presupposto di una responsabilità dell’inclusività, cioè dell’«incontro tra la consistenza oggettiva del fenomeno e l’esperienza che il soggetto ne fa» (come dice Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia, riflettendo sull’opera del filosofo giapponese Watsuji Tetsurō), allora la tensione al contatto con “l’ambiente intorno”, ha sicuramente subito una battuta d’arresto. L’operazione del libro, e il titolo prova indicarlo, è una discesa nel territorio dello stesso mutamento che prova a scandagliare il “buio” di cui dici e la speranza di un miglioramento.
Come nell’Un-zuhause heideggeriana, si tratta di spingere sempre, nonostante l’angoscia, a una fuoriuscita, in primo luogo da sé, e dalla convinzione che «al buio non vi è […] “nulla” da vedere» perché, invece, a partire da quel nulla «proprio il mondo “ci” sia ancora e in una modalità di maggiore urgenza» (M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2006, p. 541)
«Si parlava di dimensione, quindi di un nuovo spazio. Un luogo che si riformi e confermi dopo la scomparsa, dopo i non luoghi di cui è costellato l’immaginario presente», scrivi in Geografia del dominio, nella prima sezione Primavera. Ogni stagione-sezione si compone di 10 luoghi, di 10 testi e tempi che si richiamano a vicenda. La metamorfosi dei luoghi, la geologia degli strati è a che morfologia del pensiero, dei sentimenti. Una grande catena dell’essere, in cui morte e vita in qualche modo si scambiano i ruoli e le rifondazioni dell’immaginario, del tempo biologico e dunque economico. La tua scrittura mi sembra abbia un andamento frattalico, per cui l’ultima parola è sempre, o quasi sempre, la prima del passaggio successivo, una coblas capfinidas come anche fa notare nella postfazione Fabio Pusterla: secondo quale criterio hai suddiviso la raccolta?
Sicuramente pensando a un nuovo spazio, un “nuovo inizio”, richiamando un concetto tanto urgente per me e il caro amico Gabriel Del Sarto.
Quella della “nuova dimensione”, così presente in Nella spirale, è proprio una necessità di ri-collocazione della parola nel mondo e, quindi, un tentativo di captare un nuovo paradigma di luogo. Un po’ come nei quadri stagionali di Hölderlin-Scardanelli, le stagioni del libro ritornano con forme diverse – come riflessione sulla “catastrofe”, quelle intermedie, Primavera e Autunno; come racconto visionario, Estate, e congelamento nella struttura chiusissima della tradizione poetica, Inverno – finendo e iniziando, sempre (in questo modo provo anche a spiegare la tecnica delle coblas capfinidas, ben individuata da Fabio Pusterla nella sua postfazione).
Quindi, mi trovi d’accordo quando parli di “metamorfosi dei luoghi” e “geologia degli strati” che si configurano anche come “morfologia del pensiero”, perché in questo modo si manifesta quella necessità di inclusività soggetto/oggetto cui accennavo nella risposta precedente.
Il mondo e l’individuo si compartecipano. Nel libro a un certo punto introduco un mostro verbale, “uomonatura”, con cui cerco di rendere manifesta l’urgenza di trasformazione “ambientale” di cui stiamo discutendo. Ecco, la suddivisione per “stagioni” delle sezioni di Nella spirale, dovrebbe rispondere a una ciclicità che si avverte effettiva tra ripetizione e rinnovamento. Chissà, la spirale possiede il doppio movimento, centripeto e centrifugo, per cui lo sprofondamento abissale che intuisci, potrebbe anche essere interpretato au contraire. E, giustamente, parli anche di frattale che, come nel celebre insieme di Mandelbrot, introduce alla forma dell’autosimile, quando, cioè, una delle parti riproduce in scala minore l’intera struttura di un oggetto.
«Incenerava la zona imbestiata,
accatastante cadaveri, vilinusa
di cianuri e sentenze, colate
di fuoco, u focu u focu
si smancia sta terra, viva,
impazzita di sete, supina
comu i so’ figghi scappati
o rimasti acerbi nella zona,
allappati nella bocca,
nella sua fitinzìa
a zzucari scantu e razzia
pigrizia e bummacarìa.»
È una poesia di Jolanda Insana che reinterpreti in Incoscienza del declino, componimento che apre la penultima sezione, Autunno: Veni l’autunnu, è un brano di Franco Battiato. Come lui anche tu fai della citazione uno stile che non scivola nel citazionismo ma adopera le impalcature della rimemorazione per condurre nuova linfa alla scrittura. La lingua, poi, non rimane nell’alveo dell’italiano, ma sperimenta accostamenti dialettali, tedeschi, francesi. Che rapporto c’è tra la poesia e la sua evocazione dei testi degli altri e delle altre poeti e poete?
Un rapporto vivo ma, allo stesso tempo, fantasmatico. Quasi per definizione la “lettera morta” diventa sintomo della scomparsa. Una volta letto, ogni testo sfuma nel suo finire. Eppure – sei tu stesso a dirlo nella domanda precedente, quando intuisci che nella “catena dell’essere” […] “morte e vita in qualche modo si scambiano i ruoli” – Nella spirale si porge come costante ri-apparizione e insorgenza di ciò che è stato. Si sarà capito che la ciclicità sottende una riattivazione anche dal punto di vista temporale, oltre che letterario, del ricordo, ecco perché concordo col tuo accostamento a Battiato, quando ci accomuni nel tentativo di vivificare la “lettera morta”. In questo quadro, si spiega anche il riutilizzo del dialetto. Lo “ri-ciclo”, praticamente, non avendolo assimilato come lingua “matria”, lo espongo rendendolo scenico, quasi un grammelot direbbe Zanzotto. E questa riappropriazione, veramente frattale, è già trasformazione della lingua originaria in artefatto, un artificio nel cuore dell’origine. Ecco, forse è proprio questo il punto (che potremmo esaminare anche da un punto di vista generazionale): che non c’è mai stata opposizione tra natura e cultura, ma una dialettica “trans-formativa” che abbraccia anche la scrittura e, anzi, la individua come annuncio del nostro essere più proprio tra invenzione e pulsione. Nell’intercapedine tra le due spinte, si vivifica ciclicamente la tensione dell’esistere sintetizzata nel concetto di “uomonatura”.
«Con le mani non libere stanotte
dormiremo in altre sfere di mare.
In acqua scende pende oscilla l’aria,
tra porti e sbarchi muta le stagioni.
Voi, scampati, considerate il ghiaccio
e in stelle immergerete il desiderio.
Forse è un’ultima luce il desiderio
che nuovi dei scandagliando la notte
scopriranno sotto crepe di ghiaccio.
La terra è vostra, correte altro mare
naufraghi carezzati da stagioni
inedite, diverse come l’aria»
Inverno è l’ultima sezione e scritta interamente in versi. Mi ha colpito Nuovo mondo, una sestina lirica da cui ho tratto le prime due stanze. Nonostante il titolo ci dia l’aspettativa di un nuovo modo di fare poesia, in realtà tu utilizzi la sesta rima. Come mai tale scelta che, per quanto sia di una forma chiusa, nel contesto del libro ha un sapore molto sperimentale? E che legame instauri tra la prosa e il verso?
Durante il primo lockdown, nell’atmosfera di clausura imposta, sono andato a ristudiare i classici. Attraversando la Scuola Siciliana, ho risalito il crinale fino a Arnaut Daniel, scendendo dall’altro versante raggiungendo Petrarca e incrociando le rime “petrose” di Dante. Tra invariabilità e variazione, lo dicevamo, si gioca l’operazione di Nella spirale e la sestina è proprio un apparato di inversioni e progressioni, come una spirale, appunto, o un nuovo mondo (ecco il titolo) che, almeno nel magistero di Daniel che qui provo a fare mio, tenta di dare un ordine al caos. In un’altra intervista – “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)”. Gianluca D’Andrea e le “coordinate di una mappa sempre in divenire” – dicevo, tra l’altro, che Nuovo mondo è il “tentativo di riprodurre il ritmo costante eppure sempre diverso di un nuovo inizio”, riprendendo la suggestione zanzottiana del “confine-meta”, ancora un’intercapedine, dunque, che concede il transito.
Nel tuo libro spesso la parola diventa immagine, in questo caso i disegni di Vito M. Bonito: continuo estasiarsi della parola dunque, e dell’atto creativo, nonché cammino dell’autore come poeta e come persona. In certi casi Nella spirale evoca la costruzione della sezione aurea nel cinema di Ejzenštejn o l’attività performativa di Schechner: ti ci vedi in questa mia impressione?
Mi ci vedo, assolutamente.
Nel ringraziare ancora una volta Vito che è riuscito, con la sensibilità che lo contraddistingue, a dare corpo a una serie di “graffiti” perfettamente pertinenti allo spirito di Nella spirale, non mi resta, per merito della tua sollecitazione, che parlare del mito, altro motore del libro. E del rito, di conseguenza, brillantemente da te evocato nella persona di Richard Schechner, inventore dei performance studies e geniale ri-attivatore della ritualità come fondamento della vita associata. Sì, perché è proprio partendo dalla necessità di ristabilire un contatto profondo col mondo, con l’alterità, che si gioca il destino futuro di qualunque argomentazione che ancora possiamo definire politica. E il contatto è fatto di habitus, cioè di abitudini che possano creare accordo con gli habitat in cui siamo immersi, una nuova fantasia libidica, certo, anche se non applicabile con la virulenza distruttiva che caratterizzava il Dyonisus in 69 del citato Schechner, perché oggi più che mai la vera urgenza è quella di ricostruire i legami sociali, non di “rivoluzionarli”. Tutto questo provo a dirlo negli ultimi capitoli di Primavera (soprattutto nell’ottavo, Climax, titolo abbastanza evocativo) e, soprattutto, in maniera immaginifica, nel racconto visionario di Estate. In questo caso, a agire è il mito collegabile alle mie origini siciliane, al nostos, all’avventura di ricerca e ritorno, e a un’ulteriore oscillazione tra ex-stasi e stasi in buona sostanza. Ed è ancora il paradigma della ciclicità spiraliforme, come nel cinema e, soprattutto, nelle opere teoriche di Ejzenštejn, come giustamente ricordi, ad aprire il campo al viator, al “camminatore”, a colui, cioè, che è sempre alla ricerca di nuove proposte e orizzonti inesplorati, nonostante tutto sembri essere stato detto. Nonostante.
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Gianluca D’Andrea, Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), Industria&Letteratura 2021, Collana Poetica diretta da Niccolò Scaffai e Gabriel Del Sarto