Nell’agosto di quest’anno, Pippo Pollina, noto cantautore italiano, si è congedato dal suo pubblico per concedersi un periodo di pausa che durerà fino alla fine del 2016. Penso sempre che le pause siano momenti per i quali tutto ciò che accadrà dopo sarà un cominciamento, e cominciare è sempre in sé così bello. Sono andata a intervistare Pippo Pollina, che ormai da tempo vive a Zurigo, incontrandolo sul suo terreno di sosta.
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Sei pronto per la prima domanda, Pippo? Subito: cosa in particolare ti spinse quel giorno (nel lontano 1985) a prendere il treno, allontanarti dalla tua terra, e imbatterti nelle strade d’Europa, musicante, chitarra in spalla?
La curiosità, innanzitutto, e la passione per l’avventura quale dimensione dell’esistenza e arricchimento della stessa. In realtà quell’esperienza di viaggio senza meta doveva durare solo sei mesi, si protrasse, invece, per altri tre anni, poiché avvertii l’esigenza di vivere il presente quale unica dimensione temporale, e di trasportare le relazioni umane a un alveo di infinite possibilità. All’epoca avevo solo ventidue anni, desideravo attingere fino in fondo alla mia propria esistenza, lasciando che la vita accadesse.
In un pomeriggio del marzo del 1986, a Luzen, l’incontro con Linard Bardill (celebre cantautore svizzero tedesco); fu un tempellare di campane – destino? O un evento casuale e propizio? Ti va di raccontarcelo?
Incontrare Linard Bardill fu un avvenimento fortuito, assolutamente non credo che gli eventi siano interconnessi e complici di uno specifico fine; da Linard fui invitato a partecipare a un progetto discografico in lingua romancia, intitolato I nu passaran e a una tournée (Svizzera, Belgio e Germania). In realtà quello che cercavo di fare era indirizzare la mia vita secondo quel principio di mio padre che mi esortava a essere il più possibile vicino a persone migliori di me. Linard mi parve un uomo attraverso cui tendere oltre e crescere.
Il fare musica, per poi esprimere quell’universo (poetico) interiore (e non), è stata la risposta a una precisa necessità del tuo essere?
Ho sempre sentito la musica come una disposizione naturale in me, e che si è irrobustita nel tempo; essa mette in armonia tutti i miei centri, disannoda i miei grovigli. Nessuna arte ha l’immediatezza espressiva ed evocativa che possiede la musica: che è l’inafferrabile, segreta sua grandezza; lo affermo senza timore di cadere in enfasi inopportune. Attraverso il mio canto, tra l’altro, riesco a far aderire l’esigenza di espressione lirica con quella musicale; ché solo la poesia forma con la musica un’unità inscindibile.
Dal primo album: “Aspettando che sia mattino”, all’ultimo: “L’appartenenza” c’è un legame, seppur invisibile, che li accomuna?; l’impronta di una verità (o conoscenza del mondo) che si è consapevolmente o inconsapevolmente riprodotta?
C’è sempre un inesorabile legame in tutto quel che si fa, per cui ogni album è stato il prodotto e la sintesi di ciò che ho vissuto e di esperienze nuove che ho espletato di volta in volta. Anche se ogni nuova opera esibisce (quasi sempre) il processo di rinnovamento di un artista. La qualità imperturbabile, che si è felicemente riprodotta, credo sia quella emozionale.
Tra la composizione di un album e un altro vi sono stati intervalli di tempo (un anno, due, tre), sull’intera lunghezza dei quali tu hai sentito il dovere di ridisegnare e, prima ancora, apprendere la tua vita, la vita?
Certamente sì. La composizione di un album l’ho sempre vissuta come una bella e dolorosa gestazione, e che ho atteso con calma e serietà. Sono certo che ogni preparazione nasce dall’intimo profondo e che dunque da nulla può essere repressa o accelerata. Essere artisti vuol dire innanzitutto non stare a calcolare, non numerare, ma maturare naturalmente, come può fare un albero, ad esempio, che di certo non incalza i suoi frutti.
Solitudine: penetrare in se stessi e per ore, non incontrando nessuno; di quanta ne hai avuto bisogno per creare?
Tutte le opere d’arte sono di un’indicibile solitudine poiché nascono nella solitudine, non potrebbe essere diversamente. Non ho mai temuto di entrare in contatto con essa, l’ho sempre accettata, è stata la fedele compagna per lo sviluppo della mia interiorità e dell’individualità personale. Penso, inoltre, che gli stati d’animo connessi alla solitudine, soprattutto la malinconia, siano fortemente collegati con le capacità creative. Quando a Luigi Tenco gli si chiedeva il motivo per il quale scrivesse canzoni tristi, lui rispondeva che quando era allegro usciva.
Per un sentimento di affinità hai dedicato al grande Léo Ferré una canzone? O per cosa?
Non mi sento affine a Léo Ferré, o meglio, lo sono esclusivamente per ciò che riguarda le intenzioni e la sua essenza anarchica; ho dedicato una canzone a quel poeta innamorato dei poeti (che cantò Rimbaud, Baudelaire, Verlaine) per un sentimento di devota ammirazione. Nessuno credo abbia scritto come lui, con quella candida aggressività. Léo mi anima il tumulto, doloroso e vitale, della ricerca, mi conduce nei luoghi inesplorati, e a una potenzialità immaginativa; come non amarlo?!
“La vita è bella così com’è” è il titolo d’una tua canzone; mi fa pensare a “Questo universo è bello come il dono di un innamorato”, frase in cui Simone Weil esemplifica il suo atteggiamento di fedeltà al mondo, ché solo in esso si possono trovare soluzioni per reali cambiamenti, non certo fuggendolo. Il fare musica è per te (anche) tentativo di non fuggire dal mondo? Cambiarlo?
Ogni buon artista attraverso la sua opera dovrebbe interpretare, custodire e proteggere l’ambiente, non solo quello naturale ma soprattutto quello storico e umano, tuttavia credo che l’arte non possa più cambiare il mondo. La nostra esistenza è fortemente mincciata, una oligarchia detiene le sorti del mondo, entra nelle nostre case, le devasta. Quando scrivo i miei testi e la mia musica non penso a una missione educatrice, ascolto semplicemente il richiamo della mia coscienza, non potrei fare diversamente: trasformo in atto creativo la tensione, e tutto ciò che mi accade e accade all’intorno. Con “La vita è bella così com’è” sentivo la necessità di affermare quanto fosse importante accettare la morte, chè se tutti l’accettassimo, forse, l’ordigno del Potere si disinnescherebbe.
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Biografia
Pippo Pollina nasce nel1963 da una famiglia borghese di origini contadine. Cresce e studia nel capoluogo siciliano frequentando negli anni 80 la facoltà di giurisprudenza e l’accademia “Amici della musica” con studi di chitarra classica. Impegnato nell’allora nascente movimento antimafia collabora al mensile catanese “I siciliani” fino all’omicidio ad opera di cosa nostra del suo direttore storico Giuseppe Fava. Insieme ad altri musicisti palermitani fonda il gruppo Agricantus con il quale lavora fino alla fine del 1985 in sei anni di intensa attività concertistica in Italia e all’estero, e seminaristica nelle scuole medie e superiori della Sicilia. Pippo Pollina lascia l’Italia alla fine del 1985 per intraprendere un viaggio senza una meta precisa e dopo 3 anni di giro del mondo approda in Svizzera, dove oggi vive, nella città di Zurigo. Un canzoniere di circa 200 brani incisi nel solco di 19 album. Oltre 4.000 concerti in Italia, Germania, Austria, Francia, Svizzera, Olanda, Svezia, Belgio, Egitto e U.S.A.
Innumerevoli collaborazioni artistiche fra cui rimarchevoli quelle con Franco Battiato, Inti-Illimani, Konstantin Wecker, Linard Bardill, Nada, Georges Moustaki, Schmidbauer & Kälberer, Charlie Mariano, Patent Ochsner, Giorgio Conte etc. fanno di Pollina un artista in perenne movimento creativo.
Svariati premi della critica in rinomate rassegne musicali sia in Italia che all’estero lo indicano come uno dei depositari della tradizione della grande canzone d’autore italiana.
Lisa Orlando