Nicanor Parra, diamante della poesia cilena, è Rivoluzione. Unico sudamericano ad essere stato inserito nel Canone Occidentale dal critico Harold Bloom come «uno dei più grandi poeti dell’occidente» e capace di influenza sui versi di Roberto Bolaño (lui stesso dichiarerà «A lui devo tutto») Nicanor Parra, tra i più noti poeti cileni, insieme a Enrique Lihn, Gonzalo Rojas, Raúl Zurita e Óscar Hahn, ha stravolto la tradizione poetica( e non solo sudamericana): la sua è un’anti-poesia che rompe gli schemi tradizionali e che , come scrive ancora Bloom, «infuoca il lettore per l’originalità e per l’irriverenza di forme e contenuti». Le sue sono definitivamente «sillabe di fuoco», come recita il titolo della silloge d’esordio, e la sua rivoluzione è testimoniata in Italia dall’antologia pubblicata da Bompiani L’ultimo spegne la luce.
La musica della poesia di Parra è quella della vita reale, lontana dalle armonie della poesia letta sino ad allora, come quella di Neruda: i due, infatti, ebbero un rapporto alquanto turbolento tanto che una volta Parra disse «Pablo è petto di tacchino, io sono la zampa del gallo», fingendo di lodare il rivale, ma in realtà distruggendolo, poiché la zampa di gallo è un alimento più popolare ma più saporito, mentre il tacchino ha un bell’aspetto, ma ha un sapore non particolarmente forte. Lo stesso anche nei confronti della poesia Gabriela Mistral, caratterizzata da un registro alto, da una musicalità e immagini armoniose e astratte, lontana dal vivere quotidiano: la poesia di Parra è un’anti-poesia che non vuole incantare, ma scuotere e rivelare senza allusioni la miseria del mondo contemporaneo. E questo mondo lo toccò e visse fino in fondo, nei suoi centoquattro anni di vita, dal 1914 al 2018, osservandolo cambiare dall’osservatorio privilegiato (dal punto di vista sociologico) dalla sua cattedra di matematica e fisica dell’Università del Cile, a Santiago.
Irriverente, provocatoria, lacerante la sua poesia penetra il corpo e lo crepa. Lui stesso afferma che le proprie composizioni sono come montagne russe, su cui il lettore può salire, se gli va, ma poi finirà per scendere «sputando sangue da bocca e narici». I suoi versi irrequieti rompono qualsiasi regola, dipingendo scene che nessun altro poeta sino ad allora si sarebbe mai sognato di creare, aspirando ad un’essenzialità priva di apparenze. Nella sua opera, le parole d’inchiostro nero diventano concrete e materiche: pesano, disposte talvolta nello spazio a suo piacimento, creando come dei disegni, dei percorsi sospesi nell’aria dello spazio bianco, dove perfino la semplice ripetizione di una croce (e questo è il caso dei Sonetti dell’Apocalisse) diventa poesia.
Ma l’apparente follia dei suoi versi non fa altro che tuffarsi nell’amarezza della realtà: la sua poesia ritrae con pennellate essenziali lo squallore e liquidità della società contemporanea e la gente nel suo anonimo dolore.
«Credo che morirò io di poesia/ di quella malinconica ragazza/ io non ricordo ormai neppure il nome. /So solo che passò per questo mondo / come una colomba fuggitiva: / io l’ho dimenticata, lentamente, / come tutte le cose della vita».
Le sue poesie, che sembrano apparentemente opere surrealiste, in realtà ritraggono realisticamente nient’altro che l’assurda e grottesca quotidianità contemporanea, che l’umanità non ha il coraggio di accettare, ricercando con la sua spietata ironia, tra le rovine della Terra da lui distrutta, non in ultimo, la verità.