Nickolas Butler, scrittore americano autore dell’acclamato Shotgun Lovesongs (Marsilio e Feltrinelli economici), romanzo d’esordio del 2013 ambientato nell’America più profonda, spietata, ma con una visione tipica di un naturalismo alla Thoreau, arriva in libreria da oggi con il nuovo Uomini di poca fede e del quale presentiamo un estratto in esclusiva per Satisfiction. Butler ci racconta tutte le contraddizioni del credere, le sfide dell’essere genitori, la natura selvaggia del Wisconsin in un dramma familiare che ha il ritmo di una ballata e il fascino del Midwest rurale. Ringraziamento. Uomini di poca fede comincia in una primavera dolcissima e si chiude un anno dopo in modo amarissimo: leggendolo si sta con il fiato sospeso perché i dilemmi dei protagonisti diventano i nostri: Butler, che a un certo punto cita la grande Marilynne Robinson di Gilead, ha imparato da lei a costruire romanzi dalla trama forte che sollevano tutte le grandi questioni dell’umanità, che ci scuotono e ci restano dentro. Butler è uno di quegli scrittori che hanno esplorato e descritto i luoghi dove sono nati: Jim Harrison, Thomas McGuane, Ken Kesey, Rick Bass, e Louise Erdrich”. Ed è in questi autori – più che a John Steinbeck al quale erroneamente moltissimi critici lo paragonano- che affonda le proprie radici. Butler è abilissimo nel raccontare storie di uomini che si sono persi negli abissi della vita per poi ritrovarsi. Nickolas Butler che prima di affermarsi come scrittore ha fatto i lavori più diversi (da venditore al telefono a venditore di cani, da commesso in un negozio di liquori a venditore di hot-dog) oggi vive con la propria famiglia, sposato con due figli, in una fattoria circondata da sedici acri di terreno vicino a un allevamento di bufali nel più sperduto Winsconsin. E con Uomini senza fede si conferma come uno degli scrittori americani più interessanti: capace come pochi nel descrivere quel fuoco che è più vivo che mai, sotto la cenere apparente dell’America di oggi.
Gian Paolo Serino
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Il loro cortile era piccolo, ma negli anni avevano modellato quello spazio in una sorta di giardino: pavimentazione in mattoni, una semplice fontana e nel corso delle stagioni un costante sfoggio di piante – giacinti, felci, hosta, iris e gigli. Nelle zone in ombra vicino alla casa, a Lyle piaceva il denso e fresco muschio verde che spuntava sulle rocce da lui raccolte e portate a casa dai suoi viaggi in auto, in effetti la geologia era uno dei suoi pochissimi hobby. Sui due lati della proprietà cresceva una fila di rigogliosi arbusti di lillà che ricadevano sul prato e, in primavera, esplodevano in un sontuoso profumo purpureo. A nord, dove finiva il giardino, un vecchio muro di pietra calcarea si innalzava sul fianco della collina, e lì, nell’unica porzione di terreno esposta alla piena luce del sole, Peg aveva piantato macchie di erbe e piante grasse, punteggiate di echinacea e margherite.
Peg aveva visto alcune fotografie in una rivista di design, o forse era un film, e le venne una grande idea per l’“ultima cena del condannato” (così chiamavano tra loro la cena con Hoot, anche se di sicuro nessuno si augurava che le cose andassero in quel modo). E così per una settimana il maldestro Lyle rimase in cima a una scala ad appendere lucine di Natale bianche attraverso tutto il prato, da un lillà all’altro, con Peg che da sotto consigliava, indicava qua e là con una zappa in mano mentre aiutava a disporre le luminarie al posto giusto.
Se non stava appendendo le luci, Lyle era in garage; da quando Hoot aveva espresso il desiderio della cena, praticamente non aveva fatto altro che dedicarsi alla costruzione di un lungo tavolo rettangolare con assi di vecchi granai recuperate dalle fattorie della zona. Il tavolo, largo poco più di un metro e lungo all’incirca tre metri e mezzo, gli era costato decine di serate di lavoro, durante le quali ascoltava alla radio le partite di baseball dei Milwaukee Brewers o dei Minnesota Twins, scacciando le falene e i maggiolini che si avvicinavano curiosi alle luci fluorescenti sul soffitto del garage. Aveva trascorso diversi giorni a piallare tutte le assi e poi a carteggiarle bene prima di applicare due strati di vernice trasparente ricavata da una miscela di resina di pino e olio di lino.
Peg passava in garage prima di andare a dormire e Lyle avrebbe ricordato quei momenti per il resto dei suoi giorni. Sua moglie, quella donna che conosceva da sempre, in piedi nel vialetto, scalza o magari con i vecchi mocassini ornati di perline, le braccia conserte, lo fissava dal buio, poi sorrideva in direzione del tavolo e gli si avvicinava, lo abbracciava da dietro e gli premeva il viso contro le scapole.
Una volta gli disse: «Mi dispiace tanto, Lyle, mi dispiace tanto che tu stia perdendo il tuo migliore amico.»
Lui posò il pennello, le prese le mani e rimasero a lungo così, a ondeggiare al ritmo di una musica misteriosa; alla fine ribatté: «Sei tu la mia migliore amica.»
«Però è diverso, non ti pare?» esclamò Peg. «Secondo me una persona può avere più di un migliore amico. Voglio dire, a me non interessa molto bere birra con te come fa Hoot. Oppure guardare le partite di football dei Packers o parlare di vecchie automobili. Sono felice che tu abbia un amico per quel genere di cose. Proprio come sono sicura che a te non vada di andare per negozi con me o di giocare a Scarabeo.»
Rimasero in silenzio un attimo.
«È come se il tempo… è come se si muovesse troppo velocemente» disse Lyle. «Mi pare di non riuscire a tenermi strette le cose. Mi pare di non riuscire a farle andare più piano.»
«Ti terrò stretto io» affermò Peg.
Continuarono a dondolare nella notte estiva, con il cemento sotto i piedi caldi e umidi; negli angoli del garage i topi si muovevano furtivi e tra i rami di alberi invisibili le rane gracidavano forte, giù vicino al fiume un treno sfrecciava verso nord e loro lo sentirono, sentirono il terreno tremare, videro la luce del garage sfarfallare, tremolare, e Lyle voleva dire: Sentirò la sua mancanza, ma temeva che se avesse pronunciato quelle parole ad alta voce si sarebbe messo a piangere. Così le trattenne fra le labbra, dove si gonfiarono e si espansero; gli parve di avere il cranio appesantito e il cuore fragile, allora chiuse gli occhi e avvertì le braccia della moglie che lo avvolgevano nella maniera in cui un bambino potrebbe abbracciare un albero, e la strinse ancora di più a sé.
«Il tuo tavolo è bellissimo» commentò Peg dopo un po’.
«Lo pensi davvero?» chiese Lyle.
«Sì» rispose lei, avvicinandosi al tavolo e passando una mano sulla superficie liscia. «Il legno è molto bello.»
«Quel legno potrebbe avere cent’anni. Non viene tutto dallo stesso fienile, ma ho fatto in modo di scegliere solo noce americano.»
«Hai un progetto o qualcosa del genere? Uno schema?»
Lyle scosse la testa. «Ne avevamo uno così quando ero ragazzo.» Si strinse nelle spalle. «Le chiamano tavole del raccolto e, al termine della stagione della mietitura, mio padre e i suoi fratelli portavano nel campo un tavolo come questo e facevamo una grande cena.»
«Non me l’hai mai raccontato prima» osservò Peg, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Uno dei miei ricordi più belli è quello di papà dopo aver legato le ultime balle di fieno dell’anno.» Lyle si mise su una vecchia seggiola accanto al banco da lavoro ricoperto di attrezzi. «Faceva molto caldo. Fine agosto, penso. Forse anche inizio settembre. C’era polvere ed eravamo tutti fuori nei campi, a lanciare balle sul carro. Era troppo caldo per tenersi addosso la maglietta e mi ricordo che ci scottammo tutti quanti, all’aria aperta, sotto il sole; lavoravamo insieme, mia madre continuava a portarci acqua ghiacciata con fettine di limone. Che gusto meraviglioso aveva quell’acqua. Al di là del campo, i miei zii e i cugini cantavano. Quando finimmo era tardo pomeriggio e mio padre esclamò: “Andiamo a fare una nuotata, ragazzi.” Quindi si tolse tutti i vestiti tranne le mutande, non l’avevo mai visto prima così, sai? Mai visto la sua pancia, per esempio, e in verità neppure le ginocchia, poi lui corse verso il torrente, ricordo che si tuffò ed eravamo tutti sbalorditi, sorpresi, perché in quel modo, così contento, non l’avevamo mai conosciuto. Gli andammo tutti dietro nel torrente, ci schizzavamo a vicenda, mia madre ci osservava dall’argine e anche lei rideva. Mi sembra di rivederlo alla tavola del raccolto dopo essere stati a fare il bagno. Uno zio aveva tirato fuori una borsa termica piena di birre e gli adulti iniziarono a bere, persino mia madre, e poi facemmo un picnic là nel campo. Niente di speciale: pannocchie, würstel, insalata di patate e sottaceti. Suppongo fossimo poveri, ma non me ne rendevo conto. Ero solo
felice.» Emise una piccola risata e si grattò la mascella. «Questo è il mio ricordo preferito di papà. Nuotare con lui nel torrente. Vederlo sorridere. Sentire di averlo aiutato a sbrigare un po’ del suo duro lavoro, di aver dato il mio contributo.»
«Ti voglio bene, sai?» disse Peg.
Lyle sospirò. «Ti voglio bene anch’io.»
«Vieni a dormire?»
«Siamo più o meno a posto per la cena di Hoot? Devo continuare a lavorare?»
«Resta solo da cucinare» rispose Peg. «Ma possiamo occuparcene Shiloh e io. La sera della cena dovrai soltanto aiutare ad apparecchiare la tavola.»
«Ah, perfetto» ribatté Lyle. «In effetti sono distrutto. Andiamo a letto.»
Diede un’ultima occhiata al suo tavolo. Il treno ormai era sparito, nella notte non c’era più quel rumore assordante. Spense la luce del garage, abbassò la saracinesca sgangherata. Peg gli tese la mano e lui la prese, e insieme si avviarono in casa, lungo il corridoio che avevano percorso molte volte, fino al letto che li accolse così com’erano, si sdraiarono sulla schiena e si misero a fissare il soffitto, entrambi preoccupati per il nipote, lo splendido bambino per il quale avevano tanta paura, e per sua madre, che amavano al punto da avere il cuore spezzato al pensiero che lei si stesse allontanando sempre più da loro, dalla loro casa, dalla loro minuscola cittadina, come un canotto alla deriva visto dalla costa nebbiosa.
Traduzione di Fabio Cremonesi
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