La passione tutta italiana per i fatti altrui trova conferma nell’enorme successo del romanzo di Nicola Lagioia, La città dei vivi, edito da Einaudi. L’autore pugliese mette su carta, usandolo come pretesto per svolgere un romanzo intimistico-psicologico, un fatto di cronaca che tanto fece parlare nel 2016. Si parla dell’assassinio di Luca Varani. Il caso fece molto scalpore perché rappresenta lo squarcio del velo di Maya, oltre il quale si nascondevano (e per la verità neanche troppo bene) fatti scandalosi e testimonianze di corruzione che stavano, in quegli anni, caratterizzando la nostra capitale. Era l’anno del commissariamento del comune, prima dell’elezione della prima sindaca romana, l’anno delle buche e della “monnezza”, l’anno della scoperta della pedofilia a Termini e l’anno dell’autocombustione dei mezzi pubblici dell’ATAC. Cose che esistevano da tempo, insomma, ma che hanno deciso di farsi vedere tutte insieme.
Nonostante la natura del romanzo, l’autore parla molto poco, preferisce far parlare i fatti e gli interessati agli eventi. Descrive i fatti e gli interrogatori, le deposizioni di menti malate, i discorsi, i litigi e la quotidianità di chi è schiacciato da una città corrotta, con il suo stile scrittorio da cocainomane, agitato, confuso. Certo è che le tematiche affrontate, il contesto nel quale il fatto di sangue si mette in atto consentono tale esplicazione del linguaggio, tuttavia il saliscendi stilistico-linguistico si trova fuori contesto nei momenti meno patetici. Si nota l’arrancare della narrazione in momenti maggiormente descrittivi e si nota, in queste circostanze, una sorta d’imbarazzo dell’autore, che pare decida di mettere a pretesto il degrado romano per giustificare l’atmosfera decadente evocata dalla sua penna.
Come dicevamo, l’assassinio di Luca Varani è il pretesto per parlare di sé. Il meccanismo interessante adottato da Nicola Lagioia è quello di fare in modo che siano i personaggi, gli interrogatori e i documenti della magistratura a prendere la sua voce. Eccezion fatta per l’esplicazione di qualche pagina della sua figura, narrante momenti della sua biografia e del suo percorso di crescita, queste persone terze raccontano ciò che l’autore decide di far raccontare, facendo in modo che poi, il lettore tragga le fila del discorso, facendolo aderire colle brevi inserzioni autobiografiche.
Per i lettori assidui del Direttore del Salone del Libro di Torino, tale opera pare una sorta di testamento dell’agire dello scrittore. Ritroviamo quei temi cupi, quei personaggi decadenti, quelle menti vittime del proprio contesto che solitamente narra Nicola Lagioia, tra i pochi capaci di trovare una spiegazione letteraria alla follia umana. In questo romanzo ci sono spiegati i motivi di queste scelte e il primo indizio è il motivo del suo interesse per il caso: dapprima la paura dell’autore ad avvicinarsi al fatto di cronaca perché troppo vicino alla sua esperienza biografica, poi la passione, quasi ossessione, che l’incarico di costruire un reportage a riguardo lo coinvolge (per meglio dire lo travolge). Dal dramma familiare, al tema del “tirare a campare” adottando tutti i mezzi che il confine giurisdizionale, labile ma presente, mette a divisione tra il lecito e il legittimo.
Altra nota che La città dei vivi vuole portare al diapason del lettore è quella della pregnanza e invisibilità del male. Il tema ormai è battuto da scaffali di letteratura e da interviste ai vicini fatte dai telegiornali, in cui la risposta tipica alla domanda «Lei conosceva l’assassino?» è il rituale e quanto mai scontato commento che fosse un bravo ragazzo e che nessuno l’avrebbe potuto immaginare capace di un gesto simile. Le storie in parallelo delle vite segrete di ognuno di noi sono un pretesto letterario che cerca lo stupore del lettore, che, tramutato in riflessione, dà l’impressione di essere Pindaro nel mondo della filosofia etica. Non è affatto così, il fattore “vita segreta” spogliato dai merletti del mistero, altro non è che comune vivere in società, in cui il segreto è legittimato dal quieto vivere e la falsità è l’unica ragione morale di vivere in relazione con gli altri. Vizi assurdi, decisamente propagandati dalla scrittura dello stupore che sarebbe fine a se stesso se si trattasse d’un romanzo di fantasia: in questo caso, descrivendo un fatto di cronaca, per chi si è appassionato subito al caso, fa in modo si rivivano situazioni che non possono trovare risposta se non nell’assurdità, appunto, del male. Si capiscono i motivi di quanto accaduto, relegandoli alla perifrasi: logica conseguenza del mondo. Insomma, ci sentiamo un poco meno sicuri, sapendo che quanto descritto da Lagioia è un fatto realmente accaduto?
Le tematiche affrontate sono molte, e le 459 pagine ne sono una prova. Nicola Lagioia, come detto, ha voluto fare girare la profondità di una società malata, la mancanza di comunicazione, la solitudine, intorno al dramma che egli stesso ha vissuto in prima persona e che tanto l’ha toccato. Ci è riuscito bene, del resto: ora conosciamo un poco di più Nicola Lagioia, ci rendiamo conto che la vita degli altri non è così distante dalla nostra e che al dramma e alla sofferenza siamo tutti chiamati prima o poi nella vita; togliendo altri stereotipi.
Lorenzo Bissolotti