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Nina Wähä anteprima. Il testamento

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Un testamento che riecheggia come una maledizione: “Voglio soltanto dire che anche se non mi menzionerete mai più, parti di me continueranno a vivere. In voi, nei vostri figli, nei figli dei vostri figli. Magari loro non lo sapranno, non lo ricorderanno, ma quello che ero io, resterà. Annidato nel profondo, come un seme in attesa di germogliare.”

Scritto apposta per scatenare liti: “Do la mia parte della fattoria e i pochi spiccioli che mi sono rimasti alla (…). Gli altri possono prendere le mie vecchie enciclopedie e pulircisi il culo. Ah, no, a proposito: l’ho già fatto io! Aha!”

Una famiglia vissuta “Come un re dei ratti, quel groviglio di code di topi che si ritrovano intrecciati contro la propria volontà.”

È ora disponibile in libreria Il testamento, il romanzo di Nina Wähä tradotto da Stefania Forlani (Carbonio editore 2023, pp 424, € 21).

Nina Wähä, ex cantante e attrice svedese, è insegnante di scrittura creativa e editor freelance. Il testamento è il suo terzo romanzo , tradotto in numerose lingue e vincitore di vari premi letterari, tra cui l’August Prize, il Norrland’s Literature Prize, il Tidningen Vi’s Literature Prize, e il premio letterario della Radio svedese. L’edizione francese è stata nominata al Prix Femina Étranger..

Il romanzo narra la storia di una famiglia composta da quattordici figli, che vive in una remota tenuta nella campagna finlandese. I genitori si sforzano nel lavoro faticoso con risorse limitate, con il padre a capo e la madre costretta al silenzio.

I figli si muovono irrequieti tra le pareti domestiche: Esko, il primogenito che aspira ad ereditare la tenuta; Hirvo, che spesso scompare nei boschi per parlare con gli animali; Helmi, la sorella sposata e sempre in cerca di denaro; e i figli più giovani, ancora troppo piccoli per sfuggire.

Alcuni, invece, hanno trovato una nuova vita altrove, come Annie, la sorella maggiore, trasferitasi nella moderna Stoccolma, anche se ora qualcosa sembra trattenerla nel podere.

Si esplorano le ansie del cittadino che torna nell’isolamento del paese di origine: “Se nessuno vede svolgersi la nostra vita, esiste davvero, quella vita? E noi, esistiamo? Abbiamo vissuto?”.

Il romanzo descrive una famiglia patriarcale d’altri tempi, in cui i figli venivano allevati per essere forza lavoro in campagna. Al centro del panorama familiare complesso ci sono malumori e incomprensioni, spesso causati dal difficile carattere del padre, percepito dalla moglie come una “forza distruttrice”.

Emergono le inquietudini verso i cambiamenti: “Sai quello che lasci, non sai quello che trovi, ed è rassicurante sapere che, anche se è una vita di merda, almeno è la tua vita di merda”.

La moglie, che ha affrontato quattordici gravidanze senza mai provare piacere, è ritratta così: “Siri sapeva che c’erano donne a cui piaceva, o che avevano imparato a farselo piacere, o perlomeno così dicevano, ma lei non era così, non era una di loro.”

Il romanzo tocca tutte le miserie dell’umanità, dalla guerra alla violenza, dalle relazioni tossiche alla povertà, dalla paura del futuro al sadismo. Un libro di autentica letteratura sul dolore e sull’incomunicabilità tra individui immersi in un groviglio di rapporti disfunzionali, vissuti anche al di là della famiglia.

Ma c’è anche la speranza, che spinge alla comunicazione, all’osservazione del presente e del futuro, e alla consegna del proprio testamento alle generazioni future.

Carlo Tortarolo

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C’è qualcosa di speciale nel tornare a casa. Può piacere o non piacere, ma non è mai una cosa che lascia indifferenti. Ad Annie ha sempre suscitato molte emozioni.

Negative – perché aveva sempre un po’ paura che, una volta tornata, il paese natio potesse in qualche modo artigliarla, e lei si sarebbe ritrovata all’improvviso bloccata, intrappolata lì. Fisicamente incapace di muoversi, di tornare a casa, o andarsene via. Una sensazione che aveva da adolescente, quando sentiva di avere fretta, di doversi sbrigare, altrimenti il posto, quel posto, l’avrebbe afferrata, e lei sarebbe rimasta incatenata lì. I piedi avrebbero messo radici e sarebbero germogliati. Perciò aveva lasciato il villaggio a soli sedici anni.

Positive – perché molti dei suoi fratelli (la maggior parte, in realtà) erano rimasti. Il loro era un legame forte, a volte sembrava fisico. Come se fossero uniti, se non da cordoni ombelicali, da qualcos’altro, da altre catene forti e invisibili. Come un re dei ratti, quel groviglio di code di topi che si ritrovano intrecciati contro la propria volontà. E loro vivevano così, fianco a fianco, mai soli, sempre uniti.

Ma questa volta le preoccupazioni di Annie non riguardavano soltanto il suo ritorno a casa. Il vestito le stringeva e aveva dovuto comprare un cappotto nuovo per l’inverno, quello vecchio era diventato troppo piccolo. Si passò le mani sulla pancia, che aveva cominciato a sporgere dal suo corpo magro, e dove ogni notte sentiva guizzare una vita ‒ all’inizio solo debolmente, e forse era solo frutto della sua immaginazione, ma poi l’avrebbe sentita sempre più forte. Un figlio che non aveva desiderato, ma che non aveva potuto rifiutare.

Aveva già abortito una volta, e aveva solo ventisette anni, ed era il 1981, e sarebbe stato meglio non avere altri aborti, né allora, né adesso, né mai, forse. Il raschiamento era stato doloroso e, viste le cicatrici sul suo utero, i medici le avevano sconsigliato altri interventi, se in futuro avesse voluto dei figli. E ora che un bambino aveva iniziato a crescerle dentro, chi era lei per dire di no, quando forse sarebbe stato anche l’ultimo (e unico)?

Il primo figlio non aveva potuto tenerlo. L’uomo, il padre (si chiamava Hassan), era un ticket to nowhere. Un vicolo cieco. Era immigrato per lavoro, proprio come lei, ma da un Paese extraeuropeo. Un Paese in cui voleva tornare, in cui i diritti delle donne e la lotta per ottenerli non erano certo arrivati lontano come nei Paesi nordici. Un Paese in cui Annie non avrebbe mai potuto o voluto vivere. Lei aveva ben altri piani.

Il padre di questo bambino, invece, be’… la giuria non si è ancora pronunciata! Annie non era innamorata, quello lo sapeva. Forse non lo era mai stata. A volte pensava di soffrire di un disturbo dell’affettività, probabilmente a causa della sua infanzia, dei molti anni senza amore, senza genitori, ma non era qualcosa su cui si soffermava, scrollava le spalle e via. Se lo lasciava scivolare addosso.

La vita era sua, e solo sua, non l’avrebbe sprecata per niente e nessuno.

Ma un bambino, adesso.

Con Alex. Alex del lavoro. Alex con quegli occhi scuri pericolosi. I capelli ricci. Il petto villoso. La voce bassa e rauca. Il sorriso ironico. Lui che era semplicemente lì, e rimaneva lì a fare domande, a corteggiarla, a insistere. Alex che le mostrava i suoi quadri a olio, a tarda notte, sul Lappkärrsberget, mentre si dividevano una bottiglia di Chianti. Che le faceva vedere come mescolare i colori. Che la ascoltava quando lei gli raccontava del suo sogno di andare a Pompei. Per riportare alla luce la città da sotto la lava. E spolverare con delicatezza quei volti contorti dal terrore, e archiviare, documentare, tenere un diario delle piccole parti, unirle fino a formare un tutt’uno.

C’era qualcosa che l’attraeva nel cercare di mettere ordine in una catastrofe che era già avvenuta, molto tempo fa. Sì, forse la chiave erano proprio le parole “molto tempo fa”, perché Annie non sarebbe stata costretta a provare emozioni, ma si sarebbe limitata a esaminare il mondo in maniera clinica; era quella parte dell’archeologia ad attrarla.

E Alex aveva capito, non tutto, ma almeno parte di quello che gli aveva raccontato. E le aveva preso il viso tra le sue grosse mani e l’aveva baciata, diverse volte, ancora e ancora, finché lei aveva ricambiato, dapprima con riluttanza, e poi non più. E adesso aveva anche messo un bambino dentro di lei. E aveva grandi progetti, persino sogni, per il loro futuro e la loro vita insieme. Una vita da bohémien, dove di notte avrebbero dipinto (non importava se Annie volesse dipingere o no) e di giorno avrebbero partecipato a dimostrazioni, e di pomeriggio avrebbero fatto l’amore e di sera avrebbero bevuto vino.

E il bambino?” chiedeva Annie.

Il bambino, nostro figlio, sarà un genio. Io vengo da una famiglia di geni, questo bambino, questo figlio, un giorno conquisterà il mondo” rispondeva Alex.

Questo bambino sarà la terza parte della nostra unione” diceva Alex.

Nessun problema” diceva Alex.

Annie avrebbe voluto credergli.

L’avrebbero chiamato Oskar. L’avevano deciso insieme. Più o meno. Come uno degli antichi re del Paese in cui vivevano ora, Oskar II. Un re che era stato poeta e scrittore, e che aveva incoraggiato la letteratura e chi la praticava, e che condivideva con Alex lo scetticismo nei confronti del poeta nazionale, August Strindberg.

Annie avrebbe voluto credere ad Alex. Credergli quando le cantava “Alex is the man, Alex understands”. Ma, dentro, la preoccupazione la assillava: tutti questi piani e sogni sono davvero nostri, miei, e se è così, in tutto questo io dove sto?

Perché lei se ne sarebbe andata.

Anzi, riformulo: lei doveva andarsene.

Non aveva alternative.

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