Siamo Tutti Drogati: L’ecstasy degli studenti, l’eroina dei disperati, la coca di tutti i giorni. L’Italia è strafatta strillava la rivista Millennium nel giugno 2018.
La copertina sortì un effetto lisergico sulla sottoscritta. Perché io sono una drogata. Come voi. Eh sì, lo siamo tutti in maniera diversa, anelanti verso un altrove, alla folle ricerca di un senso, uno sballo, un oblio. Chi si fa di stupefacenti, chi di psicofarmaci, chi di alcol, lavoro, sesso, sport, cibo, social media … Qualsiasi cosa, in sostanza o esperienza, che “faccia” sentire e/o intorpidire i sensi.
Le droghe esistono da e per sempre. Sull’argomento sono state riversate tonnellate d’inchiostro da I Paradisi Artificiali (1860) di Charles Baudelaire a Le Porte della Percezione (1954) di Aldous Huxley, da La Valle delle Bambole (1966) di Jacqueline Susann a Il Mio Bambino Difficile (1979) di Albert Hoffman, il chimico che sintetizzò LSD …
Il MIO libro per antonomasia sul tema è Christiane F. Noi, I Ragazzi dello Zoo di Berlino (1981). Sulla mia ingiallita, e sottolineatissima copia, con tanto di commenti a latere, c’è ancora un monito, scritto a penna, che oggi suona ridicolo, forse già allora: “PRIVATISSIMO: Nessuno lo può leggere.” Il libro racconta la storia vera di una precoce discesa negli inferi della droga di Christiane F., ragazza berlinese che nel 1976 a 12 anni incominciò a fumare hascisc e a 13 a bucarsi. Per procurarsi le dosi si prostituiva lungo il Kurfürstendamm, in quegli anni il viale dei bucomani – come fu tradotto in italiano – presso la Banhof Zoo, la stazione ferroviaria di Berlino. Il libro fu scritto sotto forma di diario – quanti diari ho scritto da ragazzina! – raccolto da una serie di bobine registrate da due giornalisti, Kai Hermann e Horst Rieck, che intervistarono Christiane (nome di fantasia) durante un processo per stupefacenti che la vedeva imputata. Il dramma di Christiane F. divenne un caso in Germania, dove il testo fu addirittura inserito nelle antologie scolastiche e discusso da medici, insegnanti, operatori sociali. La sua storia coinvolse il grande pubblico, esplodendo anche in Italia nei primi anni Ottanta, a seguito della trasposizione cinematografica con il film Cristiana F. Noi I Ragazzi dello Zoo di Berlino – autentico pugno nello stomaco al pari del libro – con una “stupefacente” colonna sonora a cura di David Bowie che nel 1977 proprio a Berlino registrò l’album capolavoro Heroes. A quei tempi lo stesso Bowie affrontava un travagliato periodo di declino a causa di una fortissima dipendenza da cocaina e alcol.
Avevo tredici anni la prima volta che lessi il libro. Lo avrei riletto e riletto e riletto ancora fino ai diciotto anni. Io sentivo, e mi sentivo, Christiane. Anche se all’epoca non avevo mai fatto uso di droghe – fumai infatti il mio primo spinello ‘solo’ a quindici anni – simpatizzavo con le tribolazioni emotive della mia sorella berlinese. La sensazione d’isolamento, l’estraneità verso il resto del mondo, le insicurezze, le paturnie sue erano le mie. Le nostre da adolescenti. Ho ‘solo’ avuto la fortuna di avere un’ottima famiglia e di non essermi innamorata per la prima volta di un ragazzo bucomane. Ciononostante ho avuto un’adolescenza difficile, in costante contrasto con ogni tipo di autorità, genitori, insegnanti, bigiavo scuola, prendevo la metro – come Christiane! – mi perdevo tra facce sconosciute, mi sconvolgevo bevendo “per fuggire dalla mia vita regolare, non dai casini”, scrissi in una nota al libro. Senza drogarmi. Altro colpo di culo: nei primi anni Ottanta noi adolescenti non avevamo a disposizione la massiva e massiccia quantità di sostanze stupefacenti di oggi. Chissà cosa mi sarebbe potuto succedere se fossi stata adolescente negli anni Duemila …
Per questo sento, nella mia dirompente sensibilità, una comunione di umani sensi con gli emarginati, brutalmente definiti “tossici”, dello zoo di Berlino di Milano: il famigerato boschetto di Rogoredo, anch’esso situato lungo una stazione ferroviaria, popolato da esseri umani ridotti a zombie dalla dipendenza e dalla degradazione di una vita sopravvissuta sulla strada.
Durante l’edizione del 2018 di BookCity, Gian Paolo Serino organizzò eroicamente – We can be heroes just for one day – una serie di letture nel boschetto, vero girone infernale, costellato di baracche di spacciatori e popolato da spacciati, insieme all’eroico Cecco Bellosi, fondatore della comunità Il Gabbiano Onlus per il recupero delle persone affette da tossicodipendenza. Il loro rivoluzionario incontro – alla faccia degli eppeningS nei salotti buoni a nulla – portò un buon numero di anime disperate a chiedere aiuto entrando in comunità.
Quest’anno sono scesa anch’io in quella stazione. Sono arrivata in metro a Rogoredo in un’uggiosa mattina di novembre. Non avevo idea di dove fosse quel luogo così vicino eppure così remoto, di cui tanto avevo letto. Ero sola, come piace a me. Mi sono incamminata costeggiando le rotaie del treno e in meno di cinque minuti di cammino ho intravisto l’entrata del bosco. C’era una ragazza. Aveva l’aria da sconfitta afflitta. Una tossica, insomma. Ho esitato. Solo un attimo. Poi spinta dalla mia coraggiosa umanità, le ho chiesto se si voleva unire a quella mattinata di letture.
«C’è anche qualcosa di caldo da mangiare e bere,» ho aggiunto pensando cosa diavolo potesse fregarle di una tipa dai capelli rosa che brandiva copia de I Sotterranei di Jack Kerouac. A lei che nei sotterranei ci viveva. Ho percepito la sua vergogna di vita. Le ho visto le mani sporche che quasi ritraeva e gliele ho strette nelle mie ‘manicurate’. Le ho guardato gli occhi, chiari, prostrati al dolore, ma non persi.
«Come ti chiami? » le ho chiesto.
«Pina … Non dormo da sei giorni.»
«Allora, dai vieni che intanto ti ristori un poco.»
L’ha fatto, lenta, vestita di nero con una sacca che contiene tutta la sua vita.
In una radura Cecco e i volontari avevano allestito un semplice ma caldo ristoro con caffè, focaccia e pizza.
«Ho freddo,» mi ha detto Pina.
Le ho scaldato le spalle. Le ho servito una tazza di caffè. Per trasmetterle calore, umano.
Mi piace pensare che il ristoro non sia stato solo nella focaccia (Pina comunque preferisce la pizza, mi ha detto).
«Ci sono altri due ragazzi ma si vergognano a venire qui.»
«Ti va se li andiamo a invitare insieme? » le ho proposto.
«Va bene.»
Così mentre iniziavano le letture con Walter Siti, Franco Bolelli, Manuela Mantegazzi, Annarita Briganti, Claudio Sanfilippo e il nostro hero Gian Paolo Serino, io e Pina ci siamo allontanate insieme.
«Di solito quando vedono gente si nascondono sulle scale del cavalcavia,» mi ha spiegato.
Ma non c’era nessuno.
Solo io e lei.
Ci siamo accese una sigaretta mentre sotto la pioggia fissavamo le rotaie dei treni in rumoreggiante e frenetico passaggio.
«Dove dormi?» ho osato chiederle.
«Un po’ sui treni e poi dove capita…”
«Di dove sei? »
«Sono salita dalla Sicilia ventinove anni fa. Ho tre figli. Sharon e due maschietti. Me li hanno portati via. Ho sposato un bastardo. E sono figlia di una bastarda.»
Non ho osato proferire parola. Sentivo che voleva parlare. Forse nessuno l’ascolta. La sua disperazione.
«Ne avevo quattro. Ma uno è morto durante il parto.»
L’intima confessione di Pina mi ha squarciato il cuore. A me, una sconosciuta nullipara per scelta. Mi si sono inumiditi gli occhi. Solo avvisando un flebile pizzico del suo inenarrabile dolore. L’ho guardata, colma di compassione: “Oh Pina …”
Mi sono mancate le parole.
Il mio istinto animale ha fatto l’unica cosa possibile in un attimo di così commossa intimità. L’ho abbracciata a lungo. Sotto la pioggia. Che copriva le nostre lacrime.
Schiuso l’abbraccio, le ho chiesto se potevo leggerle qualcosa. Scese al riparo sotto il cavalcavia, mentre sfrecciavano i treni sulle rotaie e le macchine sulla strada, le ho letto da I Sotterranei:
Perché mi son lasciata affliggere in passato e poi cercar consolazione nella droga o nel bere o nell’ira o in tutti quei trucchi che la gente inventa perché di tutto han voglia tranne che di capire serenamente che cosa è che c’è, che dopotutto non è poco … bisogna smetterla con la droga … Avrei potuto trasformare tutta la mia vita e farla assomigliare a quella mattina, bastava solo uno sforzo di pura intelligenza e volontà per vivere e andare avanti.
Ho tentato di suggerirle di entrare in comunità – così riposi un po’ – ma non ho insistito perché non era il mio ruolo. Il mio piccolo ruolo è stato di starla a sentire, di trattarla da essere umano qual è.
Quando siamo tornate, è stato il mio turno di leggere.
Leggevo, cercandola con gli occhi.
Ma Pina era scomparsa.
Inghiottita dai suoi demoni nella selva oscura dove smarrì la diritta via.
Ora nella mia privilegiata tana, mentre tasto i tasti raccontandola, la cerco ancora. Con la penna.
Ritrovandola nel cuore.
Photo credit: Antonio Saia