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Norman G. Finkelstein. L’industria dell’Olocausto

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L’industria dell’Olocausto di Finkelstein si incentra sull’analisi di due tesi fondamentali: i tedeschi e soltanto loro devono assumersi la responsabilità di fare i conti con il proprio passato, le élite ebraiche americane sfruttano l’Olocausto nazista per ottenere vantaggi politici e finanziari.

La pretesa che l’Olocausto faccia parte della memoria americana è un alibi morale. Fa sì che si eviti di assumersi quelle responsabilità che davvero spettano agli americani nel momento in cui affrontano il proprio passato, il proprio presente e il proprio futuro.1 Nell’analisi di Finkelstein l’industria dell’Olocausto è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.

Dal punto di vista storico, la Shoah è considerata il più grande spartiacque dell’età contemporanea: una tragedia che ha rimesso in discussione le logiche e il pensiero occidentale, modificando l’approccio sociale, culturale, economico e politico dell’individuo in ogni campo d’indagine della realtà storica. Secondo una prospettiva strettamente narratologica, invece, la somma degli eventi che indichiamo con il termine Shoah presenta una forte potenzialità romanzesca, specialmente grazie alla presenza di un pattern di dinamiche e circostanze che sono state spesso etichettate come eroiche, in relazione ai sopravvissuti.2

Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura di inserirlo in un contesto di tipo universale. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. Tutti coloro che hanno scritto e scrivono dell’Olocausto concordano sul fatto che sia unico, ma ben pochi concordano sul perché. Anche se lo fosse, che differenza farebbe? Come potrebbe cambiare la nostra comprensione se non fosse il primo ma il quarto o il quinto di una serie di catastrofi comparabili?

Il male unico dell’Olocausto non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede loro anche una “rivendicazione nei confronti degli altri”.3

L’Olocausto ha messo in evidenza il tratto distintivo peculiare degli ebrei, ha dato loro il diritto di considerarsi particolarmente minacciati e particolarmente meritevoli di ogni sforzo possibile per la loro salvezza.4

Fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Con la guerra arabo-israeliana del 1967 tutto cambiò. La spiegazione più diffusa di questa svolta, ricorda Finkelstein nel libro, fu che il totale isolamento e la vulnerabilità di Israele nel corso della guerra dei Sei Giorni fecero rivivere la memoria dello sterminio nazista. Questa interpretazione, però, distorce tanto la realtà del rapporto di forza nel Medio oriente a quell’epoca quanto l’evoluzione delle relazioni tra le élite ebraiche americane e Israele. Colpiti dall’impressionante spiegamento di forze israeliane, gli Stati uniti si mossero per farne una loro risorsa strategica. Israele si trasformò in un procuratore del potere americano in Medio Oriente.

Per le élite ebraiche americane la subordinazione israeliana al potere statunitense fu una fortuna inaspettata. Il sionismo era nato dal presupposto che l’assimilazione fosse una chimera e che gli ebrei sarebbero stati percepiti come un corpo estraneo potenzialmente pronto a tradire. Paradossalmente, dopo il giugno 1967, Israele facilitò l’assimilazione negli Stati Uniti: gli ebrei ora erano in prima linea a difendere l’America – o meglio l’Occidente civilizzato – contro la barbarie degli arabi.

Se prima del 1967 Israele incarnava lo spauracchio della doppia fedeltà, ora era il simbolo della superfedeltà.5

Per proteggere la loro posizione strategica, le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto.6 L’industria dell’Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo israeliano.7 In fin dei conti, l’Olocausto divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele.

Tra i gruppi che protestano la loro vittimizzazione, ivi compresi neri, latini, nativi americani, donne, gay e lesbiche, solamente gli ebrei, nella società americana, non sono svantaggiati. Il reddito pro-capite degli ebrei è circa il doppio di quello dei non ebrei, sedici dei quaranta americani più ricchi sono ebrei, il quaranta per cento dei vincitori americani del premio Nobel in ambito scientifico ed economico è ebreo, così come il venti per cento dei professori nelle università più importanti e il quaranta per cento dei soci dei maggiori studi legali di New York e Washington.8 L’Olocausto costituì l’immagine ribaltata del tanto decantato successo degli ebrei nel mondo: servì a ratificare la loro identità di popolo eletto.

La netta contrapposizione fra personaggi positivi e negativi, che sta alla base di ogni narrazione mitologica, biblica o favolosa nella tradizione occidentale, si ripresenta con insistenza e chiarezza espressiva nella dicotomica rivalità fra i personaggi protagonisti del filone narrativo dell’Olocausto: i prigionieri dei Lager opposti alle SS naziste, per esempio. In questo senso, molti dei riferimenti alla Shoah nella realtà contemporanea si manifestano per descrivere e rendere esplicite situazioni soprattutto caratterizzate da ingiustizie sociali, repressioni violente da parte di un governo estremista, massacri di popolazioni e mancanza di libertà di espressione.9

Di fatto, Hitler modellò la sua conquista dell’Oriente sulla conquista americana del West.10 Quando promulgarono le leggi sulla sterilizzazione, i nazisti fecero esplicitamente riferimento al precedente americano.11 Più è cresciuto il loro successo sociale, più gli ebrei americani si sono spostati politicamente a destra. Benché sono rimasti progressisti su questioni culturali quali la moralità sessuale e l’aborto, sono diventati sempre più conservatori in materia di politica e di economia.12 Attivatesi con piglio aggressivo per difendere i loro interessi di corporazione e di classe, le élite ebraiche tacciarono di antisemitismo tutti coloro che si opposero al loro nuovo corso conservatore. In questa offensiva ideologica, l’Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente, come risulta dall’analisi di Finkelstein, rievocare le persecuzioni del passato serviva a respingere le critiche sul presente.

È dalla fine degli anni Ottanta che, dopo un lungo silenzio, il ricordo del genocidio ebraico ha incominciato a emergere nel dibattito politico e culturale dell’Europa occidentale. L’Italia è passata nello spazio di qualche decennio da una fase di indifferenza per la memoria della Shoah a una frenesia commemorativa che trova la sua massima espressione ogni anno in coincidenza del Giorno della Memoria. Parallelamente sono stati incentivati viaggi della memoria ad Auschwitz e sono stati inaugurati memoriali e musei importanti. Eppure, a ben guardare, qualcosa non torna nel panorama generale. Forse perché siamo in presenza di una contraddizione sempre più evidente tra l’ossessione commemorativa per ricordare l’orrore del passato e una tenace, quanto mai diffusa, ignoranza di fondo sull’argomento che accomuna giovani e adulti e che non fa dell’Italia un caso isolato.13

Si parla della Shoah quasi senza porre l’accento sul fatto che furono gli ebrei a essere condannati a morte per la colpa di essere ebrei e senza spiegare sufficientemente come fu pensato e perpetrato il genocidio. L’intento è ricordare tutte le vittime dei crimini nazisti oppure alludere a un’umanità sofferente ma indistinta e generica? Parlando di tutti, si riesce a non parlare specificatamente di nessuno, né degli ebrei, né delle altre vittime. La Shoah non è la storia di tutti i crimini nazisti, ma è la storia del genocidio degli ebrei. Una storia che coincide solo in parte con quella, per esempio, dei campi di concentramento e del fenomeno del lavoro forzato.14

In origine, con il termine “sopravvissuto all’Olocausto” si indicava chi aveva patito il terribile trauma dei ghetti ebraici, dei campi di concentramento e dei campi di lavoro schiavistico. I sopravvissuti alla fine della guerra sono generalmente stimati nell’ordine delle centomila persone.15 Di queste, oggi saranno in vita non più del venticinque per cento. In tempi recenti, l’espressione “sopravvissuto all’Olocausto” ha assunto un nuovo, più ampio significato: designa non soltanto chi ha sofferto nei campi ma anche chi è riuscito a sfuggire ai nazisti. Così, nella categoria rientrano, per esempio, gli oltre centomila ebrei polacchi che dopo l’invasione tedesca della Polonia trovarono rifugio in Unione Sovietica.

Eppure quelli che si erano sistemati in Unione Sovietica non vennero trattati in modo diverso dai cittadini russi, mentre i sopravvissuti ai campi di concentramento sembravano dei morti viventi.16

L’ufficio dell’ex Primo ministro israeliano Netanyahu ha recentemente calcolato il numero di sopravvissuti all’Olocausto tuttora in vita in circa un milione.

Il governo della Germania postbellica pagava un risarcimento agli ebrei che erano stati nei ghetti o nei campi e molti ebrei si costruirono un passato in grado di soddisfare tali requisiti.17 La Germania ha pagato finora qualcosa come sessanta miliardi di dollari. Finkelstein sottolinea che, quando l’industria dell’Olocausto gioca con i numeri per aumentare le richieste di risarcimento, gli antisemiti sfottono allegramente gli “ebrei bugiardi” che mercanteggiano perfino sulla propria morte.

Il termine Shoah è presente in ebraico nel libro di Isaia 47,11: Ti verrà addosso una sciagura che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una catastrofe che non prevederai.18 Con l’esperienza europea impressa in modo indelebile nella loro psiche, i coloni ebrei del dopoguerra, in Palestina, erano determinati a non essere mai più una minoranza, né lì né altrove. Per diventare una maggioranza, hanno condotto una campagna di pulizia etnica. Conosciuta in arabo come la Naqha (catastrofe), essa consisté nell’esilio di circa la metà della popolazione araba del territorio che sarebbe poi diventato Israele nel 1948. I palestinesi rimasti, o tornati dall’esilio, avrebbero formato una minoranza permanente in Israele.19

Uno dei problemi più complessi con cui sia la storiografia sia la riflessione filosofica sulla Shoah o Olocausto devono continuamente confrontarsi è quello della unicità per un verso, della distruzione degli ebrei d’Europa da parte del nazifascismo nel corso della Seconda guerra mondiale, e della sua collocazione, per altro verso, in un quadro storico più ampio. In quello, ad esempio, della industrializzazione dei massacri e della estetica della morte generate dalla Grande guerra, la cui ombra si è estesa per tutto il Novecento.20 Una prospettiva ancora più ampia, e in un certo senso più fosca, mette in discussione la stessa qualificazione del XX secolo come secolo dei genocidi. Da questa prospettiva, la Shoah ha rappresentato uno shock ermeneutico. La stessa attribuzione di unicità all’Olocausto ha, per molti versi, permesso di scoprire che i genocidi sono onnipresenti nella storia, appartenendo tanto alle pratiche violente delle società barbare quanto al culmine del processo di civilizzazione e ai vertici della modernità.21

Riportare l’oggettività del dato storico e affermare la santità del martirio di un popolo, ebraico nel caso dell’Olocausto. Questi i punti centrali cui tende l’analisi di Finkelstein. Al contempo, però, deplorare la mistificazione storica e della memoria operata dall’industria dell’Olocausto al servizio di un vero e proprio racket estorsivo.

Irma Loredana Galgano

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Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano, 2024.

Traduzione di Daria Restani.

Titolo originale: The Holocaust Industry: Reflections on the Exploitations of Jewish Suffering.

Traduzione degli apparati di: Roberta Zuppet, Caterina Balducci, Daria Restani.

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1P. Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin Harcout, Boston, 1999.

2A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, Romance e Shoah. Pratiche di narrazione sulla tragedia indicibile, Ca’ Foscari – Digital Publishing, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2021.

3J. Neusmer, A “Holocaust” Primer, in Id. (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, Garland, New York, 1993.

4N. Glazer, American Judaism, University of Chicago Press, Chicago, 1957.

5H. Arendt, The Jew as Pariah, Grove Press, New York, 1978.

6E. Wiesel, And the Sea Is Never Full, Knopf, New York, 1999.

7A. Kapeliouk, Israël: la fin des mythes, A. Michel, Parigi, 1975.

8S.M. Lipset, E. Raab, Jews and the New American Scene, Harvard University Press, Cambridge, 1995.

9A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, op.cit.

10J. Toland, Adolf Hitler, Garden City, New York, 1976 / N.G. Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Verso, Londra – New York, 1995.

11S. Kühl, The Nazi Connection, Oxford University Press, Oxford, 1994.

12M. Friedman, Are American Jews Moving to the Right?, in Commentary, aprile 2000.

13L. Fontana, L’insegnamento della Shoah: le trappole delle buone intenzioni, in La Ricerca, Loescher Editore, Torino, 2019.

14L. Fontana, op.cit.

15H. Friedlander, Darkness and Dawn in 1945: The Nazie, the Allies, and the Survivors, in 1945 – the Year of Liberation, US Holocaust Memorial Museum, Washington, 1995.

16L. Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, Columbia University Press, New York, 1982.

17T. Segeu, The Seventh Million, Hill and Wang, New York, 1993.

18Shoah – Approfondimento in Gariwo la foresta dei giusti, it.gariwo.net

19M. Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, 2023.

20G. Borgognone, Unicità della Shoah? Oltre il “secolo del genocidio”, in Pearson, it.pearson.com

21P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere, Laterza, Bari, 2017.

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