Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Nove. Intervista ad Agostino Bertani

Home / Gianluca Garrapa / Nove. Intervista ad Agostino Bertani

Nove è il primo testo di Agostino Bertani, o chi per lui, pubblicato nel 2021 da Tic Edizioni nella collana “Chapbooks”. S’intitola Nove perché, presumo, è diviso in nove parti. Alfred, Albert e Manfred sono i tre soggetti non protagonisti che forse sono uno, forse nessuno. O tutto l’universo. Quel che importa è che molto ricorda quella geniale filastrocca del regista teatrale Antonio Rezza: Gigino e Gigetto. Entrare, uscire. La pagina è il palco assurdo di un antispettacolo del reale impossibile. L’interazione dialogante, e dei pensieri, l’intreccio di voci, e alberi, tanti. Nulla accade. Tutto avviene. Radicati nel materico e svettanti morbidi nel metafisico sprofondo di una volta celeste. Una volta celeste, ora bianca. La pagina, di carne e di albero. Il silenzio, poi. Questo umano mistero che è l’amore, il tempo. La memoria e un registratore che alla fine si rompe.

Gianluca Garrapa

#

«a Emanuele Kraushaar, o chi per lui» si apre, o si conclude, con questa dedica, il libriccino Nove. Chi è Emanuele Kraushaar e perché dedicarlo proprio a lui, e non a me, per esempio?

Conoscevo Emanuele Kraushaar di fama. Sapevo che era un editore interessato a un certo tipo di scrittura. Sapevo anche che un giorno mi sarei voluto mangiare una pizza con lui a Trastevere, dove c’è la redazione-libreria di Tic Edizioni, così gli ho mandato il mio testo. All’inizio erano solo poche righe. Emanuele Kraushaar, o chi per lui, ha creduto in Nove, quando eravamo solo all’inizio. La strada poi l’abbiamo fatta insieme e così mi è sembrato giusto dedicargli il libro. Riguardo alla pizza, ancora non abbiamo avuto occasione. Aspetto un suo invito.

«Quando esce Alfred entra Albert, ma non Manfred»: tutto Nove è un gioco di entrate e di uscite, veloci. L’essenza del libro è questo continuo fuggire e sfuggire, mi pare. La pagina sembra il nonluogo di un’azione performativa, e la scrittura non è proprio narrativa nel senso tradizionale: come si esce dalla narrazione tradizionale e come si entra in quella performativa?

Quando ho iniziato a scrivere Nove ero in treno. Stavo andando a Bologna e avevo con me una valigia di libri che dovevo consegnare a un tizio che mi aveva telefonato giorni prima. Avrei potuto raccontare questo oppure starmene zitto. Un’altra possibilità era scrivere di Albert, Alfred, Manfred. La scrittura è nata spontaneamente, come una camminata spontanea. Si cammina e basta, si scrive e basta.

«Manfred sibila e dice, il tempo si accartoccia, e si può stirare come un foglio e poi strappare […]» mi sovviene l’opera del 1931 di Dalì, La persistenza della memoria e anche le visioni relativistiche di Einstein. C’è molto tempo in questo veloce singulto testuale e ologrammatico: entrate e uscite contrappuntano le battute a strappo, le fulminanti osservazioni. Che ruolo ha la temporalità nella scrittura di Nove?

Passo la maggiore parte del tempo a pensare al tempo. La letteratura vuole fermare il tempo? Non posso affermarlo con certezza, ma mi piace domandarmelo spesso.

«[…] e lì c’è un altro giardino, in quel giardino possiamo camminare, correre, volare […]» molto presente è la natura. Gli alberi, le foglie, la terra e l’acqua. Gambi di fiori, formiche. Orti botanici. Micromondi. Nove sembra un bonsai-testo-mondo. Che rapporto hai con la natura? E la scrittura è per te una pulsione pseudobiologica, una necessità culturale, un istinto di sopravvivenza della memoria dell’uomo: cosa?

Ti ringrazio per aver paragonato Nove a un bonsai. Amo la natura, ma è un sentimento che mi spaventa. Per questo mi trovo a mio agio con le piccole piante, i vasi di fiori, l’erba che sbuca da un marciapiede, anche se confesso di essere attratto da altissime e fragorose cascate, da boschi infiniti, da un albero su Nettuno.

«[…] tutte queste parole ci sono cascate sopra la testa schiacciandoci a terra» dice Alfred e mi pare di sentire un noto psicoanalista francese del secolo scorso. Cosa è la parola per te, e perché hai deciso, o desiderato, scrivere Nove?

Solo nel silenzio riesco a essere veramente me stesso, te stesso, sé stesso. Tutte le parole che ho scritto però erano dentro di me e non potevo tenerle troppo a lungo.

La parola è come un virus e una volta che ce l’ho dentro preferisco tirarla fuori. Considero Nove e tutto quello che scrivo una sola lunghissima parola tagliata in tanti piccoli pezzi.

«[…] poi il giardiniere ha nascosto la bocca risucchiandola dentro di sé e alla fine è stato zitto» è un’immagine potente che evoca quella bocca che bacia sé stessa di cui parla Lacan riferendosi alla pulsione. Nove mi ha rammentato quel grottesco perturbante di Cosmo dello scrittore polacco Gombrowicz. Essenziale come un regista grotowskiano e postnarrativo come un geometra non euclideo, a un certo punto dal tuo registratore fai uscire una voce che dice «dico wuammol» e poi «ma sento che il pensiero è anche più forte se non è supportato dalla voce». Preferisco non chiederti nulla. Aggiungi tu una risposta finale, o una domanda, è uguale.

Wuammol.

Click to listen highlighted text!