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‘O cane. Intervista a Luigia Bencivenga

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Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Luigia Bencivenga, autrice del romanzo  d’esordio “O Cane”, edito da Italo Svevo Edizioni, e vincitore della menzione speciale al premio Calvino. Laureata al DAMS, con una tesi sulle sottoculture spettacolari napoletane, Luigia Bencivenga ha pubblicato su diverse riviste letterarie ed è autrice di racconti, corti teatrali, radiodrammi e videopoesie. Collabora con il mensile «Rockerilla» e suona la fisarmonica e canta solo in lingua napoletana.

Vogliamo raccontare ai Lettori e alle Lettrici forti, che ci seguono su Satisfiction, da dove nasce l’idea iniziale di questo romanzo unico nel suo genere, il tuo percorso nel mondo della scrittura e come sei arrivata alla casa editrice di Alberto Gaffi?

 La prima volta che ho pensato a ‘O Cane ero alle prese con la cosiddetta “elaborazione del lutto”, con tutto il suo corollario terapeutico, analitico e chimico. Non stava andando bene, perché alcuni lutti pietrificano e io ero una bella pietra vesuviana nel centro di Bologna. Nello specifico, ero in quella fase in cui ci si sente in colpa di non piangere. Un giorno, in un lieve slancio vitale, vado in bagno e disegno sulle piastrelle una città. Non sono un’ottima disegnatrice ma a poco a poco la città ha preso forma, il suo perimetro, i quartieri, il centro, la zona bagnata dal mare. Era il mio paese, era Ilias. Dopo i luoghi, ho individuato le scene (la scena della festa al Belvedere è la prima), infine i personaggi, un po’ tutti perdenti ma gaudenti, legati da un lutto comune, quello per il proprio cane. La perdita di un animale domestico (che lo si voglia considerare figura di attaccamento o oggetto di transizione)  può innescare un dolore lacerante proprio come quello per una persona cara. La scrittura è venuta dopo, di getto, bastava guardare il disegno. Il lavoro sulla lingua, invece, mi ha impegnato molto più tempo, perché intendevo mantenere un tono drammaturgico e, allo stesso tempo, distaccato. Volevo una lingua che si muovesse tra il tragico e il comico, anche per rendere meglio il rapporto intimo degli iliasiani con la morte ( Mimì  per lavoro trasporta i cadaveri dall’obitorio alle loro case, per consentire l’ultima intimità tra famiglia e defunto). È un rapporto possibile, tangibile, quotidiano, dunque non immune dalla comicità, dall’ironia. 
Quando ‘O cane mi è sembrato pronto, ho inviato il testo al Premio Calvino. Mi è andata bene, non tanto per il risultato, ma perché ho trovato persone che non mi hanno giudicato per l’apparenza. Mario Marchetti, Sara Amorosini e Chiara D’Ippolito mi hanno accolta per quello che ho scritto, non per altro. Grazie al Calvino ho conosciuto Dario de Cristofaro di Italo Svevo, un genio dell’editing e una persona perbene. Eccomi qui.

 
A partire dalla scelta formale precisa di una scrittura ironica, e curatissima, ma pure allucinante e visionaria, proviamo a raccontare le allegorie dissacranti e questa massiccia presenza di cani nel romanzo e lo strano viaggio che si innesca per il personaggio che più di tutti rimane impresso nella mente del lettore, il cane Garryowen con il suo latrato Wirrwarr?

O cane è un omaggio a James Joyce, dalla prima all’ultima pagina. Joyce fa un’operazione non semplice, prende una città reale e la trasforma in un mito. Anche in ‘O cane la vera protagonista è Ilias, città totalmente immaginaria. Sebbene le dinamiche sociali ricordino molto la provincia di Napoli, lentamente, grazie a una lingua asciutta, neutra, credo che Ilias si trasfiguri in una qualsiasi cittadina del sud, e non solo. Altri sono i riferimenti a Ulisse. L’azione comincia il 16 giugno e alcuni personaggi sono ispirati ai loro omonimi joyciani, ma capovolti. Si veda Molly, la moglie di Gibilterra che tradisce Mr Bloom. In ‘O cane diventa  una cagnolina (un galgo di Gibilterra) leale e fedele al suo amato Garryowen, anche dopo la morte. Il protagonista canino è sicuramente Garryowen, cane realmente esistito, di proprietà della famiglia Giltrap. Joyce ne fa il cane del Cittadino, antisemita, intollerante e costruisce su di lui un episodio di grande realismo, direi autobiografico poiché J.J. aveva paura dei cani. Nell’episodio in questione, Mr Bloom, proprio quando afferma con decisione le sue convinzioni e la sua grande umanità, rischia di essere di essere morso dal cane. Nel mio romanzo, Garryowen è un incrocio tra un Setter irlandese maschio con una Irish Terrier. Ha una natura divina e nobile, anche perché è stato abituato all’ascolto di musiche di grande spessore come lo Stabat Mater di Pergolesi o la Petite messe solennelle di Rossini. Rivela un eros particolare, quella qualità tipicamente umana di procedere verso l’altro, in particolare verso l’ultimo padrone, Mimì, il Figlio delle stelle. Il suo verso non poteva essere un baubau qualsiasi, ma qualcosa di più poetico. Ho scelto la parola Wirrwarr (caos – guazzabuglio) che rimanda a tradizioni poetiche romantiche (Klinger). In realtà, Wirrwarr, per me, è  il titolo di un’opera di Sanguineti, il mio poeta del cuore, perché ha mescolato il registro aulico al basso senza fregarsene molto di quello che l’accademia avrebbe detto.

 
Il romanzo ’O Cane si svolge nell’arco di alcuni giorni del giugno 2015 in una città immaginaria nei pressi di Napoli, Ilias, abitata da esseri umani bordeline e da cani vittime di una strana carneficina. Vogliamo spiegare come è strutturata questa città agonizzante e nel dettaglio raccontare le storie degli abitanti che la popolano con le loro deviazioni, a partire da Sauro Consilia e da Mimì Nasone, detto Figlio delle Stelle?

Tu dici “città agonizzante”. È così, se si pensa ad un’agonia cronica, senza fine. Nessuno dei personaggi intende mettere fine a un travaglio che ha radici antiche. Del resto, ci si abitua a tutto. La struttura urbanistica rivela tre grandi sezioni/quartieri – Case Rosse, Belvedere e Cala Renella – a cui corrispondono altrettante umanità, con le proprie dinamiche di sopravvivenza. Non esiste conflitto, bensì immobilismo. Non è, per esemplificare, la Hunger city di David Bowie (Diamond dogs, 1974) dove il disagio e la disperazione fluiscono nell’istinto di lotta. Qui esiste una certa rabbia che freme, ma non risolve in una rivolta come nelle banlieue parigine, ma in azioni di “sfregio”,  nel  “cinocido”. Ogni quartiere di Ilias si tiene in vita grazie all’altro. È un patto tacito di prestazioni reciproche tipico delle organizzazioni mafiose, capace di reggere all’infinito quella che tu definisci agonia. Le case Rosse sono l’esempio dell’edilizia post terremoto, un’architettura criminale – non so se definirla brutalista –  concepita per abituare gli occhi al “brutto”. Sono isole senza legge, dove però vive un’umanità che ride, si innamora di continuo, si racconta. Il Belvedere è il quartiere del potere, di proprietà di chi ha “le mani sulla città”, il Prefetto, il Vecchio e Sauro Consilia. Gli abitanti soffrono la perdita di cani di valore a cui sono legati, talvolta in modo malsano. Come nelle Case Rosse, anche in Belvedere le relazioni disfunzionali sono la spia di un’agonia che non sarà arrestata, poiché chi la vive non ne ha coscienza. Va tutto bene, perché cambiare?
Cala Renella infine è il posto dei reietti o di coloro che, di propria volontà, hanno deciso di tagliare legami familiari e amicali. Centrale è la figura del Vecchio che, dopo una vita dedicata agli affari di famiglia, acquisisce Cala Renella, una ex zona di confino. La sua intenzione è quella di creare un Paradiso a suo uso e consumo. In realtà, Cala Renella è un luogo dove si mette in scena il Paradiso, e la scena riserva sempre sorprese, come l’incontro con un nipote sconosciuto o come la sorpresa dell’ultimo amore. I personaggi di ‘O cane sono tantissimi, ma sicuramente Mimì e Sauro Consilia sono centrali nella dinamica della città e nell’evoluzione della storia.
Mimì – detto Figlio delle stelle –  è un uomo che ha subito gravi abusi nel corso della sua infanzia, da parte di sua madre alcolista e un padre – Sauro Consilia – manipolatore. Gli abusi fanno parte di un piano plagiante ben organizzato da Consilia. La finalità è quella di piegare le persone (la vera moglie, l’amante, la figlia ipersessuale, i detenuti del suo carcere) al proprio volere e, nel caso del figlio, di azzerare la sua identità. Proprio per questo, Mimì, a 13 anni, si fa tatuare una stella nera sull’occhio destro e diventa il sosia di Paul Stanley dei Kiss. Si trasforma in qualcos’altro per evitare di essere niente.

Buona Lettura di “O Cane” di Luigia Bencivenga

Antonello Saiz

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