Come andrà a finire? Forse con un’esplosione cosmica, come voleva Ezra Pound e come ci mostra, al cinema, Melancholia di Lars von Trier. O magari con un gemito, come aveva sostenuto T.S. Eliot, che di Pound si professava allievo, e come mostra il pianto della madre in The Tree of Life di Terrence Malick, per esempio, dalle cui lacrime il mondo – il “suo” mondo – rinasce dopo essersi estinto. L’escatologia, e cioè il discorso sulle cose ultime (ta éschata in greco), non è un’attitudine esclusiva della tradizione cristiana, così come non è esclusivamente cristiano il genere dell’apocalittica, all’interno del quale brilla la gemma neotestamentaria della Rivelazione di Giovanni. Nondimeno, pensare la fine significa mettersi in rapporto con il cristianesimo, magari per porne in discussione gli esiti, ma senza sottrarsi alla promessa dei nuovi cieli e della nuova terra, che la visione dell’Apocalisse comporta. Succede così che, in questa vigilia dell’ultimativo e minatorio 2012, scrivere della fine sia anche, in qualche modo, scrivere del cristianesimo, non fosse altro che per contestarlo. Succede nella Strada di Cormac McCarthy e nella sua versione pop, l’action movie The Book of Eli. E succede in due romanzi italiani vicinissimi tra loro e tra loro assai diversi: Nina dei Lupi di Alessandro Bertante (Marsilio) e La seconda mezzanotte di Antonio Scurati (Bompiani). Due autori che hanno in comune l’anno di nascita, il 1969, una lunga amicizia e, negli ultimi cinque anni, l’ideazione e organizzazione del festival letterario Officina Italia. Quando ci incontriamo, in una mattina dell’insolita ottobrata milanese del 2011, niente lascia presagire che una qualche fine sia vicina.
Fuori c’è il sole, si parla per un po’ degli asili di Città Studi. Di là, nell’appartamento di Scurati, c’è il triciclo della sua bimba. Da buon padrone di casa, Antonio lascia che sia Bertante a rispondere per primo alle mie domande.
OFFICINA APOCALISSE
Vi siete resi conto che, in qualche modo, stavate lavorando sullo stesso tema?
Bertante: «Più che il tema, è uguale la sensazione di partenza, questo sentore di crisi che sta attraversando tutto l’Occidente. Siamo uomini che hanno smarrito la rappresentazione di sé, perché siamo usciti da ogni percorso identitario. È un sentimento diffuso, lo ripeto, ma che in Italia si fa ancora più acuto, come se la punta della lancia avesse colpito qui con più forza, provocando un imbarbarimento culturale ancora più forte».
Scurati: «Sì, bisogna partire dalla crisi di un modello di civilizzazione, bisogna resistere alla tentazione di ridurre tutto a cronaca minuta, come vorrebbe una certa pigrizia giornalistica. Detto questo, ci sono due livelli, il primo dei quali è senza dubbio la crisi attuale della nostra società, una crisi che è vuoto morale, un fluire verso la sozzura e il bordello. Tutto ciò è interessante nella misura in cui ci suggerisce di formulare nuovamente un interrogativo sulla nostra storia e quindi sull’impresa di civilizzazione occidentale, appunto. Se manca questo aggancio, la nostra vita quotidiana si svuota di senso, confinandoci in una tristezza priva di dimensione tragica ed etica. Per oltre un secolo la componente autocritica della coscienza occidentale ha considerato per sé peggiorativa la formula “impresa di civilizzazione”, equiparandola a mera impresa di conquista, asservimento, sottomissione. Ora invece è il tempo di interrogarsi sul senso profondo che questa stessa impresa ha avuto nell’arco della nostra storia».
In Nina dei Lupi l’economia è la prima a crollare, trascinando con sé tutto il resto. Ne La seconda mezzanotte, al contrario, tutto il resto crolla e rimane solo l’economia. Come mai questo rovesciamento?
Bertante: «In realtà non c’è contraddizione. Le due eventualità sono legate tra loro. A me interessava ipotizzare un’Apocalisse in cui il lettore potesse immedesimarsi con qualcosa di straordinariamente prossimo, nella fattispecie un crack economico di stampo argentino, che ci indurrebbe a temere di perdere la nostra “roba”, per utilizzare un termine verghiano. Credo che, ora come ora, il tessuto civile si sfalderebbe in una settimana. Allo stesso modo, La seconda mezzanotte colloca la riconoscibilità dell’importanza dell’economia in un contesto completamente differente. Oggi l’incubo non è più costituito dalla bomba atomica, come è stato fino agli anni Ottanta. L’olocausto nucleare e lo stesso degrado dell’ambiente sono stati superati dalla centralità dell’economia, sempre in riferimento al nodo originario della perdita di civilizzazione».
Scurati: «I due romanzi si assomigliano anche per il modo in cui declinano il paradigma politico. Entrambi aprono la narrazione a valle del punto di rottura, raccontano un mondo che viene dopo la fine, proibendosi la narrazione del crollo, che invece appassiona e anima l’immaginario apocalittico. La narrazione del dopo è funzionale in maniera inversa alla possibilità di raccontare l’istante in cui tutto va in frantumi. In Nina dei Lupi il crollo è tratteggiato in modo veloce, ci sono flashback quasi vergognosi, come se l’autore si rendesse conto dell’inadeguatezza di soffermarsi su questa fase. Ne La seconda mezzanotte l’atteggiamento è dichiarato. Nel passaggio da uno stato di conflitto militare a una conflittualità economica (dal mondo del guerriero al mondo del mercante), questa stessa possibilità di pensare il momento del crollo come qualcosa di narrabile è ormai venuta meno. Il nostro sentimento di vivere alla fine dei tempi è venato in parte da questo senso di delusione. Mentre l’Apocalisse è stata lungamente attesa e temuta come un momento quasi invocato, liberatorio, anche palingenetico, oppure con rabbia, furore e desiderio di vendetta nei confronti di un mondo che non ci voleva più, ora abbiamo la sensazione che ciò che poteva essere perduto è già alle nostre spalle, ciò che poteva corrompersi è già corrotto. Persino l’istante finale è già stato superato e non l’abbiamo nemmeno vissuto. Ci è sfuggito il momento di rottura, il crollo. Non abbiamo nemmeno potuto godere della vertigine dell’abisso che si apriva sotto i nostri piedi. Qualcosa ci ha eroso il terreno sotto i piedi e siamo scivolati senza accorgercene. E quel qualcosa è l’economia».
Bertante: «Non per niente siamo la prima generazione che si troverà a essere più povera dei propri padri. Mi riferisco a noi nati negli anni Settanta, è chiaro. Le generazioni successive staranno ancora peggio, ma noi siamo i primi, perché l’Occidente, almeno nell’ultimo secolo, si è evoluto in maniera impressionante. Nel secondo dopoguerra, in particolare, c’è stata un’espansione che non si è fermata fino a quando non è toccato a noi entrare in scena».
Scurati: «La nostra esistenza è spaccata a metà. La prima, da bambini, è stata all’insegna del benessere, di promesse che la seconda metà finirà per disattendere. Questa posizione liminale, da un lato ci invalida rispetto a ogni conseguimento artistico che verrà dopo di noi, dall’altro ci abilita, ci offre la possibilità di rappresentare una condizione unica, come di chi attraversa la soglia».
In entrambi i romanzi emerge anche una polarità tra i generi: il maschile rappresenta l’elemento bellico, distruttivo, mentre il femminile richiama il riprendere della generazione e quindi la speranza.
Bertante: «Me ne sono reso conto anch’io, anche se Antonio dichiara questa polarità in modo esplicito mentre io la esprimo attraverso la trama. All’origine penso che ci sia, ancora una volta, un dato oggettivo. Osservando la cronaca, si ha l’impressione che gli episodi nei quali l’uomo si fa branco siano divenuti più frequenti. Alludo a un genere di ferocia tipicamente umana, che può emergere in modo virulento in regioni del mondo anche molto vicine a noi e in un tempo prossimo, non in un eventuale futuro fantascientifico. Questo perché è venuto meno un tessuto sociale fondato su regole ben precise. La mutazione è già in atto. Per me è una sensazione che si manifesta a livello fisico ed estetico nell’osservare le trasformazioni in corso nelle nostre città».
Scurati: «Due grandi temi sono stati rimossi dalla nostra scena culturale. Uno è la questione dei generi e l’altro la possibilità di dare forme culturali alla violenza. Sono due punti che segnano il chiaro fallimento del progetto di modernità occidentale. Per quanto riguarda i generi, la tarda modernità ha tentato di riformularli attraverso la rivoluzione sessuale del ’68. Credo che di tutte le rivoluzioni questa sia stata la più fallimentare, basata com’era sull’idea che i generi potessero restare inalterati, il maschile e il femminile, però su un piano di parità relazionale che andava verso una felicità erotica e sessuale dovuta proprio alla pariteticità, all’orizzontalità. È chiaro che quel tentativo di riformulare un’eredità atavica, deprivandola di tutti gli elementi coercitivi eppure lasciandola tale e quale, è fallito. Allo stesso modo è fallita l’ipotesi di un’urbanizzazione della violenza, nelle forme di una tradizione militare ancora più curializzata e bonificata di ogni componente morale. Era la pretesa di delegare la violenza organizzata agli specialisti della guerra, ai bombardieri che massacravano le popolazioni a noi nemiche, mentre noi ce ne restavamo inerti, completamente estranei alla violenza. È interessante ciò che dice Alessandro a proposito di un presentimento angoscioso: sentiamo che quella violenza preme, s’infiltra nelle nostre vite, ma non si tratta di un dato statistico, visto che i delitti sono diminuiti e il grado di violenza attuale è più basso che in qualsiasi altra epoca. Nonostante tutto, alcuni tra noi percepiscono che quella violenza ferina fermenta nel segreto. L’illusione di poter confinare questo istinto feroce è prossima alla fine».
Ne La Seconda mezzanotte incontriamo la scena di un battesimo che appare come ipotesi momentanea di salvezza, destinata però al fallimento. In Nina dei Lupi, invece, il superamento del cristianesimo pare che sia avvenuto. È così?
Bertante: «Mi pare innegabile che il genere apocalittico arrivi nella nostra cultura tramite il cristianesimo, nel quale siamo tutti radicati. Proprio per questo, per noi Apocalisse non significa solo ma anche un inizio; guardiamo ad essa con sgomento ma anche con una percentuale di speranza. A mio modo di vedere, però, il cristianesimo paga oggi una carenza di spiritualità che ho cercato di far emergere nel romanzo. Una volta tornato a contatto con la natura, l’uomo si scopre puro spirito. Riemerge così un insieme di credenze ataviche, miti, echi dell’animismo. La sciagura stessa è testimone del fallimento della spiritualità cristiana. Ciò che rimane è il ricordo di uno spirito che prima sussisteva, soprattutto nel cristianesimo delle origini, e con il quale, prima o poi, anche il cristianesimo della modernità dovrà confrontarsi in modo significativo».
Scurati: «Viviamo nelle conseguenze del dramma della secolarizzazione. Quando Weber e gli altri lo diagnosticavano, stavano ancora a monte del fenomeno, ma noi siamo a valle, stiamo in quell’annuncio. E il cristianesimo perde in spiritualità nel momento in cui cessa di essere un’apocalittica. Per me l’apocalittica non è uno dei temi del cristianesimo, ma piuttosto il fondamento. Il cristianesimo rimane ancorato alla propria radice spirituale, al proprio connotato religioso fintanto che annuncia la fine dei tempi. Esaurisce la sua parabola storica nel momento in cui si storicizza».
Ma questa è la grande scommessa del cristianesimo: quando la generazione degli apostoli vede che il Signore non torna, inizia a credere che il Secondo Avvento sia solo procrastinato.
Scurati: «Certo, questo è il tratto affascinante del cristianesimo, che lo distingue dalle altre religioni. Però questo aprirsi alla storia, nel momento in cui il senso ultimo della storia si smarrisce, rischia di devitalizzare la fede. Tornare al senso profondo della storia, anche sul versante laico, può significare ritrovare l’annuncio evangelico. Nel mio romanzo uno dei personaggi, Spartaco si addentra nella Città Perduta e si imbatte in quella che può essere assimilata a una comunità cristiana delle origini. La seconda mezzanotte è ambientato a Venezia perché lì sono cresciuto, e Venezia è una delle città che ha il più alto numero di chiese al mondo, tutte di un’elevata qualità estetica e appartenenti a diverse confessioni. Ho frequentato chiese fin da bambino, ma mai con motivazioni religiose. Se riduci una chiesa alla sua valenza estetica finisci per ridurla a rovina. Così anche un’opera letteraria se, al di là di ogni altra ambizione, smarrisce il suo palpito e rinuncia alla parentela con la dimensione religiosa, finisce per smarrire l’essenziale. Magari conquista il mondo, ma perde sé stessa».
Al cinema come in letteratura, il genere apocalittico degli anni Sessanta e Settanta si presentava come un tentativo di esorcizzare la fine. Nei vostri libri, invece, c’è quasi un desiderio di accelerarla, per misurarsi con quello che è accaduto o sta per accadere.
Bertante: «Il punto è proprio questo. Allora evocare la fine era un atto scaramantico, visto che la possibilità di una guerra nucleare era terrorizzante. Ora invece i nostri romanzi terminano con un’apertura: l’Apocalisse è temuta, ma fino ad un certo punto, dato che la componente di speranza e di palingenesi rigeneratoria è più forte. Molti romanzi attuali mostrano, anche attraverso crudeltà indicibili, questa apertura che sarebbe stata impensabile qualche decennio fa, quando la letteratura apocalittica era venata di un pessimismo senza rimedio. La strada di McCarthy, per esempio, si conclude con il ricostituirsi di una comunità, sia pure all’interno della desertificazione di ogni tessuto sociale, poiché gli americani, essendo “all’interno della bestia”, percepiscono maggiormente questa perdita d’identità. Per me l’Apocalisse è anzitutto speranza».
Scurati: «Credo che ci sia una sorta d’invocazione della bufera, quasi un grido, una chiamata addirittura autolesionistica, che porti via tutto, noi compresi. La speranza è presente in forma d’invocazione di un’autentica conflagrazione, di un punto in cui la decadenza che stiamo da lungo tempo percorrendo prenda coscienza di sé e semplifichi la fine, aprendola verso una palingenesi. Nessuna piccola mossa riformista può apportare correzioni significative, il nostro mondo deve prendere atto della catastrofe ed uscirne».
Avete comunicato tra di voi mentre scrivevate i rispettivi romanzi?
Bertante: «Sì, l’Apocalisse era un’idea comune, ma anche se abbiamo condiviso la tematica il risultato sono due romanzi molto diversi. In entrambi i casi, infatti, opera un elemento autobiografico: Antonio parla di Venezia, io sono figlio degli Appennini e descrivo quei posti. Lui ha una passione militare più forte della mia, io ho sempre amato la mistica e le religioni. Ognuno ha messo del suo, però l’orizzonte era lo stesso e ne abbiamo discusso più volte».
Scurati: «Confermo e ne approfitto per aggiungere un’ultima osservazione. Quello che ci distingue dall’apocalittica statunitense è che per noi europei a contare di più è l’ipotesi sul destino della civilizzazione, mentre gli americani sembrano non essere interessati a questa eventualità, forse perché credono che, finita la loro civilizzazione, non possa esserci nient’altro. In questo la vecchia Europa dimostra che la passione per il destino della civilizzazione è ancora viva. Quando invochiamo la bufera, lo facciamo per tornare a interrogarci sulle nuove forme di un processo che interessa oggi due sponde dalle quali la civiltà europea cerca orgogliosamente di rifuggire: l’Estremo Occidente nordamericano e l’Estremo Oriente asiatico. Il discorso sul destino della civilizzazione europea torna di grande attualità perché è preso tra questi due fuochi».