Ora siamo trasparenti.
Sei uscita dal nostro rettangolo in una folle corsa verso un fine vita annunciato.
Un nevischio leggero fa da corolla al sangue che gocciola dal naso.
Non avrei mai voluto vederti così.
In corridoio hai lasciato un’impronta color amaranto.
Ora che non c’è più speranza mi lascio trasportare dal terrore dei ricordi.
Sono ricordi sordi e raccontano sempre la nostra solitudine.
Noi sulla neve con il cane che salta impazzito come a braccare i riverberi di luce.
Noi seduti ad un bivacco nel sole che accarezza grappoli di uva regina.
Noi e solo noi con le nostre paure ad assalirci.
Abbiamo vissuto solo di paura.
E cosa ci rimane adesso se non il dolore dritto in faccia?
Certo non è quello immaginato, quello vissuto nel nostro rettangolo dal quale non siamo mai usciti.
Là, dove con gli occhi di gesso respiravamo soltanto.
Consegnati ad una paura del futuro e della solitudine costante che ci faceva tremare
anche i piedi.
Ed eccolo il futuro. Senza respiro.
Sei piena di tubi e ragnatele di fleboclisi. La morfina sale e scende dettandoti i tempi del sogno e dell’agonia.
In questa stanza vivo la mia trasparenza strisciando contro i muri color carta da zucchero.
Non voglio disturbarti. E’ la sera di San Silvestro. Il personale che viene e quello che verrà avrà anche altri programmi.
Noi non siamo il centro del mondo in un protocollo di fine vita. Noi siamo stati il nostro centro e le nostre stagioni invissute.
Col cellulare invio messaggi di un buon anno a venire.
Gianpa mi scrive come cazzo fai in questo stato a pensare agli altri.
Gli risponderò dopo la tua morte che già mi attanaglia la gola.
Perché so che alle 4 ti sveglierai. Ti hanno dato meno morfina. Ti dirò tutto.
Di te, di me, della nostra trasparenza.
Infatti ti tolgo il boccaglio dell’ossigeno e ti bacio sulla bocca senza vergogna.
I tuoi occhi sono un lago di stupore e di felicità.
Ti piango calde lacrime negli occhi mentre le parole escono a scatti interrotte dai singhiozzi. Mai ho provato tanta libertà nel dirti che puoi morire tranquilla, anche tra mezz’ora. Perché ti sto dicendo ogni verità e che la nostra vita continuerà in un altrove
dove saremo come sempre noi due soli. Che è giusto anche morire.
Non importa se io dovrò cercarti perderti ritrovarti riperderti in un girotondo di verde follia.
Che già sono piegato su di te come un ramo spezzato.
Ora che ti ho detto tutto hai fatto un cenno con la testa.
Ti rimetto il boccaglio. Ti misuro l’ossigeno. Buono.
Guardo il sacchetto delle urine. Male. 100 ml. Ancora un giorno così e sarai in blocco renale. Un giorno e sarà finita.
E’ questo il dolore? O è quello che abbiamo vissuto? O ancora deve venire?
Chiamo Deb. Le dico che è quasi finita. Che al funerale saremo lei, io e un prete benedicente la tumulazione nel mausoleo di famiglia.
Deb mi dice loco questo è il tuo funerale e ne prendo atto.
Ma tua madre era cattolica, ha giardini con rose preziose. Almeno una messa e dei fiori glieli devi. Non sei sazio di sensi di colpa? L ‘ hai fatta vivere nel tuo esilio da cosa non si sa ed adesso le neghi un funerale normale per poi massacrarti per mesi ed anni?
Cosa non va in te? Questo estraniarti dal mondo per quanto il mondo sia merdoso. Questo vivere da confinato. Avrai tempo per macellarti adesso fai le cose per bene.
Chiudo lo smartphone e ringrazio mentalmente Deb.
So che è profondamente sincera. Anche lei è trasparente e solitudinaria.
E mi torna l’odore dei gerani del tuo terrazzo di Milano. Il profumo del tuo giardino in Oltrepo.
L’odore dell’asfalto e quello del grano.
E penso che sto pensando che la morte sia mia e non tua. Che il mio essere oltre ogni senso sia solo l’inizio di una follia senza fine. Di una solitudine che era solo mia, alla quale ti ho costretto. E il senso di colpa un’esaltazione speculare al rifiuto della vita stessa.
Della felicità stessa. Che a me ho negato e a te ho tolto giorno per giorno convinto di trovare nei nostri silenzi la felicità.
Avessi lasciato la felicità al curvarsi del destino, al tuo giardino di rose ,albizie, tulipani, alla scarpata di ginestra indifferente,ai capricci del glicine, dei tigli, del maggiociondolo.
Avessi lasciato la tua dolcezza volare sopra ogni rettangolo di mondo, i tuoi fazzoletti al collo sventolare come una vittoria sull’oscurità e i tuoi ricordi diventare le onde dei mari
e l’urlo dei venti femmina e il pianto dei venti maschi.
Ma in tasca mi resta solo il vuoto della tasca e l’impossibilità di perdonarmi.
Ti sogno spesso. E questo è il segno, la cicatrice del tuo non perdono.
Oliviero Malaspina