Serata dedicata a Giuseppe Pontiggia, narratore e saggista dalla parola scalfita e dal linguaggio sperimentale. Mai monocolore, la sua scrittura è stata una gradazione delle diottrie mentali, prendendo in prestito i versi di Valerio Magrelli. Un’occasione duplice: il decennale della morte e l’uscita, nella collezione degli Oscar Mondadori, del romanzo L’Arte della Fuga. L’incontro, lo scorso 21 giugno, promosso dalla Libreria Popolare di via Tadino, a Milano, nell’ambito dell’iniziativa Letti di notte, è stato curato da Daniela Marcheschi, studiosa di letterature scandinave e curatrice dei Meridiani Mondadori di Giuseppe Pontiggia e di Carlo Lorenzini (“Collodi”). È stata una lunga notte bianca, quella organizzata da Letti di notte, che ha coinvolto oltre 200 librerie indipendenti di tutta Italia, 25 biblioteche e più di 40 editori (www.letteraturarinnovabile.com). La Libreria Popolare è stata affollata da amici, familiari, vecchi compagni di viaggio di Giuseppe Pontiggia, studiosi e appassionati. Presenti la moglie Lucia e il figlio Andrea da cui prende le mosse uno dei capolavori dello scrittore, Nati due volte, definito dalla critica, all’unanimità, un capolavoro (Campiello nel 2001): l’esperienza di genitore di un figlio disabile è scandagliata e messa a nudo, in un testo lucido e profondo che non scivola mai nel pietismo. La dedica: Ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi.
L’incontro è stato un susseguirsi di ricordi e letture, di voci fraterne, concluso con la voce dello stesso Peppo – come lo chiamavano gli amici più cari – ascoltata in una registrazione radiofonica del 2003: si trattava della presentazione di un ciclo di trasmissioni, andata in onda su radio tre, dal titolo “Paesaggi Mobili”, che avrebbe trattato i temi cari alla sua saggistica. Pontiggia fece in tempo a registrare la puntata zero, con Nicola Pedone. Morì poche settimane dopo.
Ha partecipato alla serata anche il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli. «Tra i tanti meridiani che ci sono nella mia libreria – ha affermato – ho lasciato in bella mostra quello di Peppo, per il suo sguardo ironico, bonario, divertito e anche irriverente. Una copertina che mi mette di buonumore». Ferruccio De Bortoli ricorda così il celebre scrittore ma anche il grande amico: un uomo che si è fatto voler bene da tutti, per quello che ha scritto e per come si è rapportato con i suoi lettori. Fine esploratore di libri e di stili, teso perennemente alla ricerca quasi ossessiva della parola, Pontiggia ha, infatti, scritto e riscritto alcuni dei suoi libri, tenendo conto delle osservazioni dei critici: La morte in banca ha avuto tre edizioni (1959, 1979, 1991), Il raggio d’ombra due (1983, 1988) e altrettante La grande sera (1989 e 1995). Una ricerca spasmodica che mai diventa artificio fine a se stesso e che conserva invece quella purezza e quella profondità tali da annoverare Giuseppe Pontiggia tra i grandi maestri del Novecento. Citatissimo, durante l’incontro, Le sabbie immobili, un libro del 1992, divertente e dall’ironia pungente, che analizza la società italiana, compresa quella letteraria. Ricordato anche Vite di uomini non illustri, un romanzo del 1993, pubblicato da Mondadori: diciotto esistenze che si susseguono con un contrappunto di stili, dal sapore spiccatamente innovativo. Pontiggia riprende lo schema classico, scardinandone la tradizione. L’idea di un viaggio nei classici serpeggia già in quegli anni fino a materializzarsi, nel 1998, nel saggio I contemporanei del futuro, erudito e godibilissimo, in cui l’autore “legge” novantanove classici, scelti tra opere notissime, meno note e libri dimenticati e riscoperti. Emerge il suo amore sconfinato per la lettura, testimoniato anche dalla sua biblioteca che oggi comprende oltre quaranta mila volumi. «Sono particolarmente affezionato – racconta Ferruccio De Bortoli – a un libretto piccolissimo, una trentina di pagine, dedicato all’arte del leggere. In un periodo in cui si legge spesso di fretta, abbiamo perso la bellezza e il gusto della lettura e quelle poche righe di Pontiggia ci restituiscono tutto il piacere di un’abitudine straordinaria. Leggere nel silenzio è ormai una rarità; entrare nelle pagine diventando un corpo unico con l’opera che abbiamo scelto, senza essere continuamente interrotti, è una delle avventure più entusiasmanti che ci possa essere. Questo libretto insegna a leggere con attenzione, con costanza, nel silenzio e a fare un esercizio che Peppo suggeriva, quello di leggere ad alta voce, per cementare le emozioni che la lettura suscita».
Il libretto, cui si riferisce De Bortoli, Leggere (Lucini editore), si sofferma anche sul rapporto tra lettura e libertà. Pontiggia scriveva: ‘Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente’. Una lettura pensata, dunque, e attraversata. Così come profondamente pensate erano le sue lezioni. Pontiggia lascia il lavoro in banca per dedicarsi ai corsi di scrittura creativa (di cui fu precursore in Italia, avviandoli con Raffaele Crovi al Teatro Verdi di Milano) e all’insegnamento della Letteratura in alcune scuole serali. Alla serata dedicata alla sua memoria hanno partecipato anche suoi studenti. «Pontiggia non entrava in classe – racconta Roberta Meroni – lui entrava in scena. Io ne provavo una profonda soggezione, anche quando lo incontravo per i corridoi. Erano gli anni Settanta, gli anni delle lotte sociali e delle grandi riforme e nei luoghi di lavoro le discussioni politiche erano molto accese e il dibattito spesso proseguiva in classe. Il Professor Pontiggia ci ascoltava in silenzio per un po’, poi si alzava, si metteva davanti alla cattedra e con pacatezza ed equilibrio riportava la classe alla tranquillità. Ci catturava: ogni sua parola era soppesata, non si ripeteva mai, la sua era una ricerca costante». Giuseppe Pontiggia riassaporò con gli studenti l’Ulisse di James Joyce in lingua originale. Da Svevo a Cecco Angiolieri, presentava gli autori con un linguaggio essenziale. «Non disdegnava – racconta Roberta – paragoni che ci affascinavano: le parole, i versi, ci diceva, erano da assaporare, da annusare e, come con un buon bicchiere di barolo, bisognava cercarne le sfumature, il profumo e il sapore». Cosa non tollerava il professore? «Non sopportava la superficialità – afferma – lì diventava implacabile».