Nel volume Gli States con Stephen King, edito da Giulio Perrone Editore, l’autore siciliano Orazio Labbate decostruisce per poi riassemblare l’architettura dark della narrativa del maestro Stephen King; tutto ciò per inseguire percorsi metafisici e mistici disseminati tra le pagine dei capolavori kinghiani.
Il padre del gotico siciliano esplora filosofie e oscurità inedite, si inabissa con una prosa atavica e maestosa in testi come IT, Carrie, Shining, Le Notti di Salem e Mucchio d’ossa al fine di condurre il lettore verso una mattanza letteraria e destabilizzante, Orazio Labbate non si risparmia in approfondimenti e indagini stilistiche. La “guida” di Perrone Editore è un vero scrigno di tesori arcani, oltre alla non-fiction e al saggio letterario e speculativo. L’autore infatti si pone alcune premesse per propugnare la sua indagine nelle tenebre:
Il viaggio che segue – attraverso i mondi di Stephen King per mezzo di un’attenta selezione di opere – è declinato secondo una natura letteraria unitamente triplice, che ho eletto a mio complessivo comandamento narrativo. La prima natura si muove secondo il cammino indagatorio e malinconico, di storpiamento descrittivo, eseguito dalle norme narrative di La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino. La seconda si sostanzia nella peregrinazione letteraria di matrice metafisica, che cova una tensione trasformativa del reale fino al demoniaco, avanzata da K. di Roberto Calasso. La terza, quindi l’ultima, si raccoglie per mezzo della brevità stilistica, acuminata, proposta dal flusso questionante, sul bene e sul male, di Austerlitz di W.G. Sebald. Un viaggio, dunque, accudito da questa trinitaria ispirazione che vuole sovvertire (e intanto assentire) le geografie orrorifiche delle opere più significative – secondo tali prospettive – del re dell’horror moderno. Un incubo filosofico, in definitiva, al di là dello spazio e del tempo, una demonologia della e nella scrittura .
Cristiano Saccoccia
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Si è tirati con viva forza da una prepotente sensazione di spaesamento, di caratura metafisica, quando si raggiunge Preacher’s Corners, New England, giacché nei pressi e oltre i suoi boschi vi è la città “sfuggita” di Jerusalem’s Lot. Ci si deve equipaggiare di un’antica e usurata mappa per decifrare l’esatto camminamento. Pini a sud e a est, mentre un’incisione dell’Atlantico mugghia, sottile, al di là del promontorio. Dopo due miglia, invece, una oblunga processione di strada, costituita da tronchi appiattiti in apparenza interminabili. Il sentiero porta a un torrentello grigio e ribollente. Dall’altro lato, inebetita dalla complessione malefica di una cosa sbagliata alla radice, si staglia Jerusalem’s Lot. Il flusso d’acqua del torrente è attraversato da un ponte ricoperto di muschio che si potrebbe addirittura dire ne distrugga le fondamenta. Da esso si vedono le prime forme del villaggio: un sistema abitativo nel quale sembra vigere un esatto rapporto fra bellezza e terrore; la strategia temporeggiatrice del male. Jerusalem’s Lot accoglie nelle sue interiora diverse case edificate dalle mani mortificanti dei puritani, ora abbandonate. Con le imposte mezzo staccate, tetti impregnati di esalazioni antiche, e crollati, le finestre colte dal folle spavento del tempo che le ha divelte in quella vasta e silenziosa spianata dove galleggiano. Si è colti da un senso di malessere poiché un’atmosfera profana satura di ripetuti sogni l’aria dintorno. Un vertiginoso senso di confusione divide, discorde, e la taverna, la cui insegna scolorita dice ALLA TESTA DEL CINGHIALE, VITTO E ALLOGGIO, pare l’unico luogo accessibile. All’interno, ammuffiti tavoli e sedie stanno attorno con sguardo fisso e indagatore, in qualche modo tranquillizzati dal nontempo della città. Sono deformati, in completo silenzio, per via del clima del New England, e ormai anneriti paiono storpiarsi in innumerevoli versioni muscolari. A diretto prolungamento del locale, esso va ben oltre ogni ragionevole scrupolo (ché questo è un viaggio in un luogo dove il tempo è del tempo parecchio prima), un piccolo specchio quadrato ancora intatto, grossolano, fatto con vari gradi di finezza artistica, non fa un’impressione misera semmai splende di un ostinato entusiasmo orribile. Al primo piano della taverna, le camere da letto hanno i giacigli rifatti, brocche per l’acqua adagiate con ordine come se una sorta di metafisica della Storia avesse in qualche modo tranquillizzato tutte le componenti nelle stanze. Nulla di perspicua diversità è contenuto nelle altre case. Un etere di ironico compatimento le avvolge e sono uguali tutte, sovrapposizioni su sovrapposizioni, immobili e silenziose, nel loro stile puritano. Nessuna emozione di inusitata veemenza si muove a Jerusalem’s Lot. Né uccelli, né insetti, come in un universo la cui natura proceda all’inverso, solo la polvere sviluppa le sue disgustose armonie svagate per l’aria. Ma in primo piano, con ostinatezza si allarga, radicalmente tagliando le prospettive con grande impegno e concentrazione, l’unica chiesa. Le finestre nere sono piene di strazio, scure, e da esse non fuoriescono esalazioni di Dio o fervidi desideri di pace ma melodie di spiazzamento e disintegrazione. Saliti i gradini del santuario, un robusto pomolo di ferro spicca sulla porta. Può spingersi con disinvoltura il portale anche se per molti può rappresentare un frizzante riflesso della repulsione poiché i cardini trasandati gracchiano come se un animale latrasse con un basso senso di ansietà