Il fatto è semplice, il fatto è stringente, il fatto è ineluttabile e già in qualche modo contenuto nell’incipit.
Rüya dorme nel buio dolce e tiepido, sotto i rilievi, le valli ombrose e le delicate colline celesti dell’azzurra trapunta a quadri che copre il letto, mentre Galip, suo marito, la guarda. Nella luce plumbea che filtra dalla finestra, mentre dalla strada giungono i rumori delle automobili, degli autobus, e si ode lo sbatacchiare sul marciapiede dei bollitori in rame e il fischietto del chiama-vetture alla fermata dei dolmuş, Galip indugia nell’osservare il volto della moglie e gli pare che nella curva della fronte di Rüya ci sia qualcosa di surreale che suscita in lui «un’ansiosa curiosità verso gli eventi meravigliosi che avevano luogo dentro quella testa».
Inizia così Il libro nero che il Premio Nobel Orhan Pamuk scrisse tra il 1985 e il 1989 e pubblicò soltanto nel 1994: con una scena che condensa diversi elementi che ricorreranno poi lungo tutto il romanzo e che hanno a che fare con quel mistero fitto che è il tentare di scrivere storie per venire a capo della nostra identità.
I rilievi, le valli e le colline che la trapunta disegna sul corpo di Rüya non sono immagini fini a sé stesse ma simboleggiano l’impenetrabilità: il fatto, cioè, che Rüya sia immersa in una dimensione – quella onirica – nella quale Galip non è ammesso. Galip è oltre quei rilievi, quelle valli e quelle colline. È fisicamente vicino alla moglie ma a una distanza siderale dai suoi desideri.
Mentre giungono i rumori del primo mattino, Galip prova una sensazione di ambigua curiosità e gli tornano in mente le parole che Celâl Salik aveva scritto in una delle sue rubriche: «La memoria è un giardino». E mormora tra sé: «Giardini di Rüya, giardini del Sogno… Non pensarci, non pensarci, altrimenti diventeresti geloso!».
Il problema è che però Galip ci pensa: è geloso dei volti (l’enigma dei volti) che potrebbe incontrare se soltanto potesse aggirarsi tra gli alberi di quel giardino; geloso di chiunque Rüya possa stare sognando. E allora, come a rassicurare sé stesso di essere il solo e unico uomo, inizia a ricordare di quando, ancora bambini, lui e Rüya, accompagnati dalle loro madri, andavano in barca sul Bosforo per guarire dagli orecchioni; della prima volta in cui aveva visto una foto di Rüya; dei racconti sullo zio partito per l’Africa, dove si sarebbe risposato con una giovane turca conosciuta a Marrakech e dalla quale avrebbe avuto una figlia: Rüya, appunto.
Al giardino della memoria di Rüya – e del quale noi lettori, così come Galip, non sappiamo niente – Galip oppone cioè il suo personale giardino della memoria dove i ricordi prendono a susseguirsi e sovrapporsi, con improvvise accelerazioni in cui Orhan Pamuk passa in maniera repentina dalla narrazione in terza a quella in prima persona, per lasciar parlare Galip stesso. Ma questo tentativo di riportare Rüya fuori dal suo personale giardino è destinato a fallire. A fallire nell’arco di poche pagine. Quando infatti più tardi Galip rientrerà a casa, troverà una lettera di addio da parte di Rüya: poche righe in cui la moglie non spiega niente, nessun motivo della fuga. Da questo momento in poi, mentre cade incessante la neve, Galip inizia a girare per i quartieri della città di Istanbul alla ricerca di Rüya. Non segue indizi e itinerari precisi, piuttosto si perde nelle strade, nelle bettole, nelle botteghe zeppe di oggetti, indumenti, manichini; incontra persone tutte alla ricerca del proprio io perduto che gli raccontano strane storie. Si inoltra lungo i tunnel sotterranei della città, nelle moschee, nei mercati generali, ma è come se non fosse del tutto presente a sé stesso, come fosse un sonnambulo. Non fa niente di quello che nella vita reale e nei romanzi “normali” farebbe chi si trovasse a vivere la sua situazione: non segue piste precise, non va a denunciare la scomparsa, niente di ciò che possiamo aspettarci accade. E se non accade è perché Il libro nero non è un romanzo che risponde al nostro lato cosciente. Esso sembra rivolgersi piuttosto al nostro lato oscuro. È il ribaltamento del giardino dei sogni in cui Rüya è immersa, la dilatazione spazio-temporale dell’inconscio di Galip.
Ma non è ancora tutto e non finisce qui lo stupore che suscita questo romanzo, la cui lettura può creare dipendenza (se si legge Il libro nero, poi non si potrà più smettere di leggere Pamuk) e può incrinare qualsiasi nostra certezza. Più avanti, Galip scoprirà che a essere scomparsa non è soltanto Rüya, ma anche Celâl Salik, fratello di Rüya (e quindi cugino di Galip), e – come abbiamo appreso nell’incipit – famoso rubricista.
Quando si dice la bellezza di una prima pagina che tutto già contiene: anche soltanto i nomi dei protagonisti intorno ai quali tutto il resto si muove e l’enigma dei loro volti, e chi sono o chi dovrebbero essere ai propri e altrui occhi, perché per tutto il romanzo noi lettori vedremo Rüya soltanto nelle prime righe, addormentata, mentre non vedremo mai Celâl Salik: ne leggeremo però i suoi articoli perché i capitoli pari de Il libro nero sono costituiti da alcune delle rubriche pubblicate da Celâl Salik sul giornale “Milliyet”. “Il giorno che il Bosforo andrà in secca”, “La bottega di Alâaddin”, “I figli di Mastro Bedii”, “L’occhio”, “sono alcuni dei titoli di queste rubriche (e quindi dei capitoli): rubriche che nella finzione del romanzo sono riportate come se fossero state scritte da un giornalista, Celâl Salik, realmente esistito, che invece è un personaggio inventato da Orhan Pamuk.
Diciamo questo per due ragioni:
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Gli articoli di Celâl Salik sono composti da riflessioni, aneddoti, storie che traggono origine dai ricordi del rubricista stesso, ed essendo egli fratello di Rüya, rappresenteranno per Galip una sorta di mappa da decifrare. O meglio, un ulteriore espediente per far deflagrare i ricordi di Galip e popolare le pagine di voci e di ombre che provengono da una dimensione a metà tra il passato e il presente, esattamente come lo stato in cui Galip è, tra sonno e veglia.
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Celâl Salik sarà ricordato da Orhan Pamuk in altri suoi romanzi quali Il museo dell’innocenza e La stranezza che ho nella testa. Non lo incontreremo mai come personaggio, non vedremo mai il suo volto, però, grazie alle sue rubriche, è come se egli appartenesse alla memoria collettiva della Turchia, e anzi, come se avesse contribuito a fondarla. La finzione crea qui un cortocircuito che non riguarda soltanto le narrazioni se è vero che questi due romanzi, ovvero Il museo dell’innocenza e La stranezza che ho nella testa, si aprono entrambi con una epigrafe a sua firma, esattamente come se Celâl Salik fosse un rubricista realmente vissuto.
Chiunque siano Galip e Celâl Salik, ovunque sia Rüya, Il libro nero di Orhan Pamuk sembra rivelarci come non ci sia nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere e il leggere. Lo scrivere e il leggere, le uniche consolazioni che abbiamo. Perché è grazie alla scrittura e alla lettura, quando davvero valgano la pena – e ricordiamo qui la lunghissima gestazione del libro: cinque anni – che riveliamo a noi stessi quella parte oscura e segreta che si cela oltre i rilievi, le valli e le colline della nostra coscienza. In modo da penetrare il mondo arcano dei significati nascosti e scoprire il mistero che siamo.
Gianluca Minotti