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Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio

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Ci sono due tipi di libri che definiscono al meglio i tempi che stiamo vivendo e la generazione Millennial. Uno è l’autofiction sotto forma di “personal essay,” formato che meglio di qualunque altro riesce a soddisfare la domanda di storie personali che nasce nel mondo virtuale di blog e social (tra post di Facebook e stories di Instagram, ma un fenomeno che già era presente in forma embrionale con MySpace e Second Life e forse ancor prima con il giurassico Geocities). Libri come So Sad Today di Melissa Broder, Bad Feminist di Roxane Gay fino a Heavy di Kiese Laymon e What Doesn’t Kill You Makes You Blacker di Damon Young mescolano sapientemente elementi autobiografici con la saggistica light capace di creare un campo comune, e in questo modo riescono a raccontare cosa significhi essere degli esseri umani oggi, nel qui del web 2.0 e nell’ora dell’adolescenza del XXI secolo. Un’altra forma, quella che invece ha preso la finzione più o meno pura, è il romanzo di non formazione, spesso di derivazione holdeniana, nel quale i protagonisti maturano una misantropia apatica come ultima e definitiva reazione alla società indifferente e incontrollabile nella quale si trovano a vivere. Su The New Me(Penguin, 2019) Halle Butler definisce il paradosso di dover cercare libertà e indipendenza mediante un asservimento a un precariato permanente all’interno di un cieco e muto meccanismo neoliberista. Melissa Broder su The Pisces (Hogart, 2018) espande in senso finzionale alcune delle idee espresse su So Sad Today e propone una soluzione a quel paradosso: usare gli oggetti che il capitalismo crea per intrattenere per autosedarsi, autoannullarsi e arrendersi alla necessità. Su Nobody Is Ever Missing (FSG, 2014), Catherine Lacey propone una fuga da tutto, verso un altrove indefinito e distante dove perdersi, l’equivalente esterno di un oblio interno. A queste voci fieramente misantrope, violentemente indolenti e indifferenti, essenzialmente alienate e che ricordano da vicino il “preferirei di no” del Bartleby di mellvilliana memoria, si aggiunge quella della protagonista di My Year of Rest and Relaxation di Ottessa Mosfhfegh (Penguin, 2018; Il mio anno di riposo e oblio, trad. it. Gioia Guerzoni, Feltrinelli, 2019). 
Come Lucy di The Pisces e Elyria di Nobody is Ever Missing anche l’anonima e innominata protagonista di MYORAR entra in conflitto col mondo nel quale vive, solo che la reazione che innesca è quella di un’indolenza in perfetto stile gonzo. Siamo a giugno del 2000, e una giovane ragazza di venticinque anni rimasta orfana sia di padre che di madre pochi anni prima mentre era ancora studentessa di arte alla Columbia di New York, perde il lavoro che aveva in una galleria d’arte e con esso la voglia di reagire e ricominciare. Si trascina per alcuni mesi tra il suo appartamento nell’Upper East Side, il sussidio di disoccupazione, una generosa dose di psicofarmaci assortiti e una collezione di VHS di film con Whoopie Goldberg. Ha concluso da poco una relazione malata ai limiti dell’asservimento BDSM  con un broker finanziario di Wall Street, Trevor, vuoto narcisista egoista, nonché misogino latente, perfetto simulacro del narcisismo degli anni ’80 sedimentatosi nei primi vagiti della Generazione Y, e sembra avere una sola amica, Reva, che a differenza della protagonista è “a slave of vanity and status,” “a follower, a plebeian, straitlaced and conformist” e vive per amalgamarsi e omologarsi alla società nella quale vive. L’ossessione per l’esteriorità e i beni materiali di Reva sono il controbilanciamento del vuoto esistenziale nel quale si trova a vivere la narratrice.
 Narratrice e soprattutto anti-eroina: pur essendo nata a metà degli anni ’70 e appartenente quindi alla Generazione X, si trova invece a reagire a un mondo che mostra già i primi tratti della generazione dei Millennial. La galleria d’arte per cui lavora, a Soho, è l’emblema di un mondo dell’arte popolato da “opportunists and stylist” come l’artista di punta della galleria, Ping Xi, “a producer of entertainment more than an artist.” Le opere d’arte esposte, non solo quelle di Ping Xi, ma anche quelle di altri artisti parimenti narcisisti e egoiatri, mostrano i medesimi caratteri di estremismo gratuito, tipo un tappeto con tracce e striature di sangue sistemate in modo tale da dare l’impressione che un cadavere insanguinato sia stato trascinato lì sopra, o piccoli oggetti di uso più o meno comune (un portachiavi, fiori secchi, un preservativo) avvolti in pellicola alimentare, o ancora foto di manichini rivestiti di tessuto color carne, o installazioni di cani impagliati e addirittura un quadro stile Pollock dipinto mediante eiaculazione su una piccola pallina di pigmento colorato opportunamente apposta sul pene durante l’atto. In sostanza:
The art world had turned out to be like the stock market, a reflection of political trends and the persuasions of capitalism, fueled by greed and gossip and cocaine. I might as well have worked on Wall Street. Speculation and opinions drove not only the market but the products, sadly, the values of which were hinged not to the ineffable quality of art as a sacred human ritual—a value impossible to measure, anyway—but to what a bunch of rich assholes thought would “elevate” their portfolios and inspire jealousy and, delusional as they all were, respect. I was perfectly happy to wipe out all that garbage from my mind.
Questo il mondo vacuo e inessenziale dal quale la protagonista vuole fuggire, “disappear completely, then reappear in some new form.”  Il meccanismo, pur essendo declinato in una soluzione surreale, è lo stesso di The Pisces e Nobody is Ever Missing, ma anche per certi versi quello del seminale Play It As It Lays di Joan Didion e il suo nichilismo naturale, un nichilismo cioè che non nasce da oziose pose filosofiche e intellettualistiche, ma che sgorga da una condizione mentale, un disagio e una diffidenza nei confronti di un mondo esterno. Mondo dal quale si vuole solo sfuggire, anche a costo di cancellarlo, per quanto possibile.  Mark Fisher, autore del fortunato Capitalist Realism, arriva a sostenere che il capitalismo sia diventato talmente pervasivo da sembrare l’unico sistema politico e economico possibile e praticabile. Fisher parte da una frase del critico letterario Fredric Jameson: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.” Il capitalismo, progresso e catastrofe insieme, la migliore e la peggiore cosa che poteva accadere al genere umano secondo Jameson, diventa nel libro di Fisher una specie di sostanza spinoziana che tutto genera e tutto informa. All’interno della versione neoliberista della società capitalista nessuno è veramente libero. Non se per libertà si intende una “potenza di agire.” La libertà si riduce quindi a mera consapevolezza di agire secondo la necessità della propria natura poiché “ogni cosa segue dall’eterno decreto di Dio con la stessa necessità con cui dall’essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti” (Spinoza, Ethica, more geometrica demonstrata). Basta sostituire il Dio di Spinoza con le strutture sociali di un mondo che non riusciamo più a controllare e otteniamo il XXI secolo.
Un modo per uscire da quel paradosso, l’unico modo di reagire a una società che ci chiede costantemente di produrre e consumare in un circolo vizioso sisifeo è ritirarsi in un’inazione quasi atarassica e scompararire in un’autoobliterazione quasi eroica. L’eroina di MYORAR, con l’aiuto della Dottoressa Tuttle,  una psichiatra grottesca e indulgente trovata sulle pagine gialle, ricorre a un farmaco speciale, l’Infermiterol, capace di indurre uno stato di dormiveglia semi-permanente, ma con il curioso effetto collaterale di indurre stati di sonnambulismo e amnesia selettiva, tipo quella che avviene nella serie di film Una notte da leoni. I farmaci comunque riescono a “impair our judgement,” e a farci agire più per impulsività che per ragione, quella stessa ragione che sembra ormai suggerire l’inevitabilità del capitalismo, o di qualunque cosa ci sia là fuori. L’antieroina di MYORAR innesca un processo quasi cartesiano e come il Cartesio che inizia le sue Meditazioni Metafiche confessando e riconoscendo di aver fino allora vissuto prendendo per vere cose false mette in dubbio tutto il mondo nel quale aveva fino allora vissuto, da privilegiata figlia di una famiglia benestante prima, da privilegiata studentessa alla facoltà di arte della Columbia dopo, e da privilegiata impiegata in una galleria d’arte a Soho e residente nell’Upper East Side alla vigilia del suo collasso esistenziale. 
Quel mondo collasserà emblematicamente alla fine del libro, ossia nel settembre del 2001, anno della fine di un vecchio secolo, un vecchio millennio, un vecchio mondo, ma anche anno di inizio di un nuovo secolo, un nuovo millennio e un nuovo mondo che spesso fanno venire voglia di fuggire in un anno di salubre oblio.  
 
[Originariamente pubblicato su www.americanorum.com]

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