Quello che segue è un capitolo tagliato dalla versione finale del mio romanzo. Posso dire che è stato escluso per una serie di motivi alcuni dei quali, come spesso accade, non mi sono nemmeno chiari. Sicuramente il brano, così com’è, era in conflitto con il modo in cui nel romanzo Ennio recupera l’indirizzo di Adele, perché anche qui il risultato finale è quello. Poi ci sono una serie di dubbi che avevo nel momento in cui l’ho tagliato, ma su questi è difficile fare chiarezza. La cosa interessante, per i 30, forse 31 lettori che hanno apprezzato ‘La Verità’, è forse nello sviluppo del personaggio di Raimondo, e poi nell’inserimento della figura della madre di Adele. Che è però è anche uno dei punti su cui avevo dei dubbi. In ogni caso – per chi vuole – eccolo qui.
Paolo Cioni
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La Contessa Madre
Raimondo venne in mio soccorso poche ore più tardi. Era ora di chiudere e stavo controllando che la cassa fosse a posto.
“Scommetto che non sai da dove cominciare.”
“Pensi che le informazioni che mi hai dato servano a qualcosa? Per caso hai idea di quanto è grande una città? Ci sto pensando. Mi serve un punto da cui partire.”
“Potrebbero volerci dei mesi.”
“Grazie per la fiducia.”
“Non te la prendere. Comunque non è in città che devi cercarla. Adele odia le città.”
Esitai. Che l’avesse trovata? Tutto era possibile.
“L’hai trovata?”
“Non ancora. Ma ho un’idea. Passa da me. Riesci a liberarti già domattina?”
“Non lo so. Vedo se posso farmi sostituire.”
“Mi raccomando. È importante.” Disse prima di riagganciare.
Non avevo idea di cosa avesse in mente.
Il giorno dopo, nel primo pomeriggio eravamo in macchina sulle colline. Non mi aveva anticipato nulla. Parlammo di Vaclav, di Fanelli e degli altri del Collettivo, ma non nominammo mai Adele. Era una giornata calda e luminosa e una montagna i nuvole bianche si muoveva sopra la pianura padana. Svoltammo in una strada alberata prima di Borgotaro. Adesso il sole era accecante.
“Posso sapere qualcosa di più o devo solo guidare?”
“Un po’ di pazienza. Un po’ di pazienza…”
Si massaggiò la faccia con delicatezza. Continuò a darmi indicazioni e io mi limitai a guardare la strada.
“Ci siamo. Gira qui.”
Riconobbi il cognome di Adele su un cartello stradale. C’era un paese che si chiamava come lei.
“Porca vacca,” mormorai. “Dritto nella tana del lupo.”
“Sì.”
Scossi la testa. La villa era ai margini di un vigneto, su una terrazza della collina che guardava la vallata. Era una vecchia casa di campagna, con gran muro di cinta di pietra e un cancello in ferro battuto. Ma sì, pensai parcheggiando sotto un pergolato, il peggio che ci può capitare è che ci caccino a pedate. Facciamo in nostro show.
Raimondo mi strizzò l’occhio mentre aspettavamo davanti al portone. Ci aprì una ragazzina di tredici o quattordici anni al massimo, e lui si presentò, in modo estremamente formale. Lei era perplessa. Io ero stato trascinato lì per caso, mi si leggeva negli occhi probabilmente.
“Dica alla Contessa Anna che siamo qui.” Disse Raimondo con calma. “L’ho chiamata qualche ora fa.”
Sentii il cuore fare una capriola. La Contessa Anna era la madre di Adele. La ragazza non avevo idea di chi fosse, ma intanto si era allontanata con il passo un po’ incerto. Balbettai qualcosa cercando di tirarmi fuori dall’impiccio. Guardai verso un torrente che scorre va molto sotto di noi e scintillava di luce.
“Aspetto in macchina,” provai a dire.
“Neanche per sogno.”
“Cosa c’entro io?”
“Fidati di me.”
Sospirai.
Raimondo si era raddrizzato sulla schiena, si era lisciato la camicia e infilando due dita nei passanti della cintura si era tirato su i pantaloni.
“Ci prenderanno a calci,” dissi e non aggiunsi altro.
L’uomo che si presento sulla soglia era un sessantenne alto e in gran forma, abbronzato, con addosso una camicia azzurra con bottoni di madreperla e un sorriso di circostanza che splendeva più dei bottoni.
“Raimondo.” Disse annuendo.
Raimondo rispose con un cenno del capo. Ci presentò, ma l’uomo continuò come se io non ci fossi.
“Non hai riconosciuto mia figlia, vero?” Disse rivolto a Raimondo e accennando all’ingresso alle sue spalle mentre si tirava da una parte e ci faceva entrare.
“Quella era..?”
“Lucrezia.”
“Certo. Lucrezia.”
“È cresciuta. Lo so. Sembra strano anche me che la vedo ogni giorno. Venite. Di qua. Mia sorella ti stava aspettando…”
Lo zio di Adele. Qualche somiglianza riuscivo a vederla. Provai a sorridere con naturalezza e con un’aria svagata, come se fosse la situazione più naturale del mondo. Due segugi sbucarono fra le gambe del Conte e vennero ad annusare le mie scarpe. Raimondo farfugliò qualcosa, fece un paio di osservazioni acute sui cani e così mi rassegnai al nostro destino e insieme seguimmo il Conte lungo un corridoio largo come tutto il mio appartamento, coi cani fra le gambe che agitavano la coda.
Non avevo mai incontrato la Contessa prima di quel giorno. Quando sbucò da una delle porte del corridoio mi si fermò il cuore. La somiglianza con la figlia era sorprendente. Anche lei, come il fratello, sembrò non accorgersi di me.
“Raimondo!” Esclamò. Impacciati, si strinsero la mano con delicatezza.
“Hai fatto bene a venire…”
“Ci tenevo a vederti,” spiegò Raimondo.
“Hai fatto bene. Davvero. Hai fatto bene.”
“Ho portato con me il responsabile di alcuni nostri progetti.” Io mandai giù un po’ di saliva e mi presentai porgendo la mano alla madre di Adele con un leggero inchino.
Cominciavo a capire il guaio in cui ero stato trascinato. Eravamo lì per provare a spillare qualche soldo alla vecchia?
Guadagnammo terreno, passando da una saletta e uno studio e poi a un salone illuminato dalla luce del giorno che entrava da una balconata affacciata sulla vigna. Ci ritrovammo in compagnia del fratello, dei suoi inseparabili cani e di un paio di settantenni brizzolati, uno dei quali indossava una giacca di velluto ed era affondato come un generale della guerra di Secessione in una poltrona di pelle. L’altro sembrava un avvocato, o un notaio, o qualcosa del genere, con il nodo della cravatta che gli stringeva il collo rugoso. Ci sistemano su un divano elegante e ci venne servito un tè, in tazze di porcellana dal bordo dorato, con un manico formato da un ricciolo tanto minuto che né il mio dito indice, né tanto meno quello di Raimondo riuscirono a penetrarlo. Eravamo fuori luogo come non lo eravamo mai stati. Mi guardai le scarpe nuove e tirai un sospiro. Almeno quelle erano posto.
Raimondo si infervorò subito in una discussione sui cani da caccia con il conte e il tizio con la giacca di velluto (che possedeva due allevamenti in toscana). Con la scusa di andare in bagno gli lasciai campo libero. Vagai lungo i corridoi scrutando i soffitti altissimi, finché non vidi Lucrezia, la ragazzina che ci aveva aperto la porta, che sui pattini rotelle scivolava sui pavimenti lucidati come se non avesse peso. Oppure era un fantasma, perché quando, senza un motivo, la segui finendo per infilarmi fra le scansie polverose di una biblioteca che traboccava di vecchi volumi, non la trovai più. Non riuscivo a capire dove si fosse cacciata. Poco dopo la padrona di casa venne a cercarmi, temendo forse che mi infilassi un volume rilegato nei pantaloni. Anche nei gesti delle mani sottili ricordava la grazia naturale di sua figlia. Raimondo sbucò da una porta a due ante e ci raggiunse. Mi sembrava su di giri. Mi dipinse come un esperto di libri antichi. Vendo libri usati, avrei voluto precisare, ma lui non mi lasciò il tempo di farlo. Eravamo in scena e io dovevo sostenere la parte che mi aveva ritagliato. Dalla biblioteca uscimmo in giardino e ci fermammo davanti una fontana bordata da una macchia di fiori bianchi e da cespugli rigogliosi. L’aria era profumata e la Contessa chiese a Raimondo della sua vita. Di tanto in tanto lui mi coinvolgeva e parlava del Collettivo.
“Stiamo partendo con dei nuovi progetti,” aggiunse posandomi una mano sulla spalla.
Ero arrabbiato e lui se ne accorse. Non sapevo nemmeno a quale progetto si riferisse. Forse a quella stronzata del Palazzo del Ghiaccio. Mi domandai perché mi avesse trascinato fin lì.
La Contessa era molto più lucida di noi. Si fermò con le spalle alla fontana e provò a studiare gli occhi del mio amico.
“Da quant’è che non vedi Adele?” Domandò con un po’ di apprensione. Raimondo si piegò sotto il peso di quel nome. In quel momento il fratello della Contessa uscì con i segugi e io mi avvicinai accarezzando il loro pelo duro e lucido come se fosse la cosa più interessante del modo. Non sentii la risposta di Raimondo. Lasciai che si parlassero per qualche minuto da soli e tornai nel salone. Vedendomi arrivare, i due che non si erano mai mossi si zittirono di colpo. Sollevai un pollice per dire ‘tutto a posto, fate come se non ci fossi’ e funzionò perché loro ripresero il discorsi che avevano interrotto. Sul tavolino lì davanti adesso c’erano dei bicchieri e una bottiglia di cognac. Me ne versai un goccio e mi guardai le mani rovinate e mi venne da ridere. Era buffa questa storia del tesoro, aveva ragione il giornalista della Gazzetta, me ne rendevo conto anch’io. Il salone era fresco e luminoso. Mi versai un secondo bicchiere poco prima che la voce di Raimondo arrivasse dal corridoio.
“Abbiamo già i primi finanziatori,” annunciò senza che io riuscissi a vederlo. La contessa entrò nel salone due passi avanti a lui e si sedette in poltrona. Sorrise e io feci finta di nulla. Gli altri uomini ascoltavano distratti. Era chiaro che Raimondo non avrebbe ottenuto nemmeno un centesimo. Lui però non mollò. Ci accomodammo e lui proseguì, illustrando punto per punto come il progetto si sarebbe concretizzato, come una serie dei finanziamenti fossero da tempo disponibili, come una banca addirittura si fosse già fatta avanti.
Io intanto bevevo per dimenticare. Gli stucchi e i mobili lucidati e simmetrici mi avevano un po’ depresso. Mi alzai e sentii le gambe malferme.
“Bene,” dichiarai io quando ne ebbi abbastanza “Credo che sia ora di andare.”
Nessuno provò a farci restare. Quando mi voltai per un ultimo saluto mi accorsi che, in un angolo del salone sontuoso, immerso nella luce verde di un paralume damascato, il tizio seduto sulla poltrona di pelle assomigliava terribilmente a uno dei cani da caccia. Credo fosse il nuovo marito della Contessa. Accennai il solito inchino, poi spinsi Raimondo verso la porta e arrancammo lungo il grande corridoio fino all’ingresso da cui eravamo arrivati.
“Se mi avessi dato altri dieci minuti avrebbe ceduto,” disse mentre si rassegnava seguirmi verso la macchina. Io spalancai la bocca e sentii salire dallo stomaco un conato di vomito. Boccheggiai e mi appoggiai al tronco di un albero per non perdere l’equilibrio.
“Non avresti dovuto bere tutta quella roba a stomaco vuoto.” Disse Raimondo mentre mi aiutava a sedermi in macchina. Sicuramente non ero in condizione di guidare. Abbassai i finestrini per respirare meglio. Ero arrabbiato e confuso e per un po’ non parlai. Raimondo sembrava sereno e questo non faceva che accrescere il mio nervosismo. Si guardò attorno e invece di sedersi in macchina si avvicinò al margine del giardino, nella macchia d’ombra di un grosso pino. Lo osservai, curvo e grosso come un orso, mentre si aggirava curioso, pensando al quello che mi stava accadendo.
“Verrà fuori la vecchia per dirci di andare via,” dissi dopo un po’.
“Hai visto come assomiglia a sua figlia?”
“Sì.”
Lui indicò i cespugli di ginestra e una macchia di alberi sul bordo del pergolato.
“Voglio dare un’occhiata, due minuti al massimo.”
“Dare un’occhiata a cosa?”
“Non so,” ammise Raimondo.
Ci guardammo e lui sorrise con leggerezza, con una sincerità che gli avevo sempre invidiato.
“E poi abbiamo questo, finalmente.” Mormorò passandomi un foglietto attraverso il finestrino aperto. “L’indirizzo di Adele.”
Senza aspettare una mia reazione si voltò e io lo seguii con lo sguardo mentre si infilava fra i cespugli.
Paolo Cioni