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Paolo Galetto Portraits

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Da qualche anno La Stampa pubblica i lavori di Paolo Galetto per illustrare le pagine della Cultura più significative.

 Dalla collaborazione di Galetto con la redazione del quotidiano è nata così questa raccolta di ritratti che ben rappresenta un ponte tra arte e illustrazione, un intreccio fra parole scritte e immagine. Piccoli capolavori, virtuosismi semplificati dalla generosità del segno pittorico, da cui si snoda l’interpretazione del racconto nella sua metamorfosi iconografica.

  Fino al 18 novembre, con l’iniziativa «La Stampa dal vivo», il museo, la redazione del giornale e la mostra di Paolo Galetto saranno visitabili con visite guidate in orari concordati, tutti i giorni (festivi compresi) prenotandosi al numero verde 800.011.959 o mandando una mail a futuroquotidiano@agenziamosaico.com.

 

La Stampa

Via Lugaro,15

20126 Torino

 

Paolo Galetto e il ritratto

Testo critico di Andrea Dusio

Guardando i lavori di Paolo Galetto si potrebbe pensare ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde, quegli acquarelli realizzati in maniera clandestina dopo che gli era stato impedito di lavorare, in quanto “artista degenerato”. Anche oggi, in questa ostinazione a voler fare il pittore, c’è qualcosa che rimanda all’idea di carboneria, a una pratica estromessa dal sistema dell’arte, ridicolizzata perché legata ancora a un “mestiere” e a un’abilità, non sufficientemente liquida e dunque riluttante a rimodellarsi sulla mobilità dei linguaggi e dei racconti, su quel grande gioco di relazioni e autoreferenze che è il mercato. Tutte cose che a molti interessano e a Paolo Galetto evidentemente no. Oggi noi viviamo un colossale paradosso. Il linguaggio dell’accademia è quello concettuale, che instancabilmente lavora con una sola tensione: costruire i presupposti perché il sistema sopravviva a se stesso, e la grande fumisteria possa proseguire. Antiaccademico, anarcoide e destabilizzante è invece chi ha lavorato solo su di sé, mettendo continuamente in crisi le proprie acquisizioni, cercando di rovesciare gli automatismi della propria tecnica ineffabile, e di mettersi di nuovo in comunicazione con un mistero, e dunque una ricerca. Neppure la pittura è verità. Forse ha più forza lirica della parola, ma proprio per questo chiede grande moralità, comprensione del limite. Un limite particolarmente evidente nel genere del ritratto, che resta il sesto grado delle arti figurative, che non è una palestra d’ardimento, non siamo sul terreno della mimesis. Il primo passo di un buon ritrattista è un passo indietro, la capacità di dirsi “più in là non mi sento di andare”. Paolo Galetto ha spostato intelligentemente la questione. Non “parlare di”, ma “parlare con”. I suoi ritratti dicono prima di tutto di chi li ha fatti, sono come l’inizio di una conversazione, un atto di avvicinamento e non di invasione, il tentativo di dire “forse sei così, ma magari no, questo è quel che ci vedo io, non chiedermi una parola di più”. E con questo non si vuol chiamare in causa un atteggiamento “reticente”. Non siamo in un mondo di pensiero debole, ma di possibilità.

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