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Paolo Jedlowski, Romano Màdera. Racconti di racconti. Una conversazione

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Con il termine metadimensione si intende che alcuni testi letterari problematizzano la relazione tra il processo narrativo e la sua autoriflessione interna o la sua interpretazione dialogica esterna. Attraverso l’esame di queste relazioni, si coglie l’ampiezza delle loro modificazioni delle modalità formali, dell’enfasi discorsiva, delle finalità semantiche e dei giochi intertestuali. L’uso del prefisso meta davanti a narrazione dipende dal presupposto che, in alcuni dei suoi discorsi, la letteratura ha sviluppato dei modi operativi per interrogare se stessa e di trattare la propria infinita semiosi, vale a dire il procedimento di costruzione del significato.1

Attraverso una serie di riflessioni e di esempi pratici, Jedlowski e Màdera esplorano le molteplici funzioni e implicazioni della metanarrazione nel tessuto stesso dell’esistenza umana.

Se una meta-teoria è una teoria di teorie, i meta-racconti sono racconti di racconti. Se si accetta l’idea che un racconto sia un tipo di testo in cui qualcuno dice che è successo qualcosa, la metanarrativa è un insieme di testi in cui si dice che quello che è successo è un racconto.2 La forma base della metanarrativa è rappresentata dai casi in cui un racconto ne include un altro, incastonandolo. Le incastonature rendono il racconto incorniciante una sorta di contesto dell’altro. Il che riqualifica il senso che questo avrebbe senza l’incastonatura. A volte lo modifica proprio. Ma l’incastonatura da sola non basta a dire il significato della metanarrativa che è una narrativa che riflette su sé stessa, espone cioè la natura stessa del narrare e porta alla presa d’atto della natura situata, artificiale, di ogni racconto.3

Un esempio esplicito è la scrittura di Italo Svevo, nella fattispecie la pagina firmata dall’analista di Zeno che incastona il racconto di quest’ultimo in La coscienza di Zeno: invece che una neutra esposizione dei fatti, questo diventa la ricostruzione che il soggetto stesso ne fa. La coscienza di Zeno include due racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro dice questa è la storia che Zeno si racconta e non questa è la storia di Zeno.

È lo stesso effetto prodotto dal quadro Questa non è una pipa di Magritte, dove al disegno di una pipa è affiancato il disegno di una scritta che dice questa non è una pipa: infatti è un disegno.

Ne La coscienza di Zeno la psicoanalisi diventa materiale per una finzione e ogni lettura freudiana non potrà che inserirsi nell’organismo, nelle fibre stesse di quella finzione. A Svevo la psicoanalisi è servita come implicita motivazione realistica, come alibi realistico o salvacondotto per manipolare la tecnica narrativa e per infrangere liberamente le “tradizioni”: a volte semplice spunto o pretesto, a volte diretta ispiratrice. Quanto della teoria Svevo conoscesse di prima mano perde importanza di fronte alla sua capacità di sceneggiatore, all’astuzia con cui riesce a ignorare o a dimenticare la psicoanalisi per rifonderla nel suo romanzo.4

La schisi tra eroe e narratore che abita l’io enunciante, contribuisce alla sfasatura tra l’ordine degli avvenimenti nella storia e quello del discorso narrativo, così come all’alternarsi delle variazioni di velocità, alla moltiplicazione dei punti di narrazione e all’instabilità dei riferimenti cronologici enunciati nello svolgimento del dettato. A loro volta, questi attentati alla salute del tempo partecipano alla costruzione del personaggio attraverso le formazioni dell’inconscio praticabili dal critico (sogni, somatizzazioni, lapsus) che confermano l’immagine di uno Svevo al lavoro con i mezzi che il suo progetto e la sua cultura gli mettevano fra le mani. Ne risulta, costante, un’impossibilità per l’io di domare i suoi enunciati, di farli coincidere con la sua volontà. A livello dell’enunciazione, essi si smarriscono in un’indecidibilità che mescola i colori della verità e della menzogna.5 Il fondo del romanzo è bucato e il vuoto si riproduce continuamente. Appena cerchiamo di inchiodare la confessione di Zeno a una verità ci accorgiamo dei sacrifici e delle riduzioni che sono stati necessari per ottenerla e che la mandano in frantumi. La trappola è tesa al lettore ma anche alla psicoanalisi, se appena tenta di costruirsi un mezzo per selezionare le menzogne e metterle in disparte: o per riprenderle, rielaborarle, piegarle a un canone di verità che può essere fissato solo fuori dal testo.6

La metamarrativa produce una sorta di moltiplicazione del piacere del racconto. I racconti, di norma, sono discorsi che ci avvincono e la metamarrativa ci fa, per così dire, assistere a questo «avvincimento», ci fa separare dal testo e insieme ci fa restare nei suoi pressi, ci fa restare presso il piacere che proviamo. Questo godimento implica infatti la presa d’atto che un racconto è artificio. Rispetto alla realtà a cui dice di rifarsi è un’approssimazione. Vi è inoltre una tensione necessaria fra racconto e mondo extra-testuale. Si potrebbe dire che la vita trascende il testo (è più grande di lui e lo comprende), e contemporaneamente il testo trascende la vita (perché la inserisce in un mondo di segni che permettono di andare oltre alla vita che si dà, la portano a coscienza).7

Il mondo narrato è una realtà finzionale. Anche quando raccontiamo di qualcosa che è avvenuto a noi stessi è comunque nell’immaginazione che ci collochiamo. Ciò che abbiamo fatto non è presente ora, mentre stiamo narrando. I mondi narrati – tutti, non solo quelli fantastici – sono sempre eterocosmi, cioè cosmi che non coincidono con quello attuale. Questi mondi sono il risultato di operazioni di “mimesi”. Ogni narratore ha qualcosa di un mimo: evoca o mette in scena, grazie ai segni che ha a disposizione, azioni luoghi persone. Si trasforma, o trasforma le cose: mima una realtà che altrimenti non c’è. E il destinatario risponde con almeno l’accenno di una mimica analoga. Nessun racconto, neanche il più realistico cui possiamo pensare, è esattamente una copia: come una statua, un quadro o qualunque altro tipo di rappresentazione, è un oggetto a sé stante, differente da ciò a cui rimanda. Emerge dalla vita e la arricchisce di qualcosa che prima non c’era. I racconti costituiscono un di più della vita. Sono dispositivi transizionali: ci permettono di transitare fra il mondo empirico nel quale stiamo attualmente e uno o più altri mondi possibili.8

Arrivare alla consapevolezza metanarrativa è il movimento di trascendimento interno dello stesso materiale autobiografico e analitico. Liberarsi del primo livello dell’autobiografia ingenua significa tentare-riuscire a diventare oggetto (trasformabile) di sé stessi e quindi il potersi guardare con sguardo più complesso e consapevole. Insomma fuori dall’autoreferenzialità.

La metanarrazione esiste da quando esiste il racconto, ma ultimamente è particolarmente in voga, sembra simbiotica con il pensiero o quanto meno con l’estetica del postmoderno. Per il postmodernismo la realtà si scompone in prospettive plurali e incomponibili. A svanire sembra non soltanto l’ordine della realtà, ma la realtà in sé stessa: ai postmodernisti pare che sia ormai impossibile distinguere fra realtà e simulazione. Quanto meno, pare di vivere in un mondo in cui la realtà è costantemente oggetto di processi comunicativi così pervasivi che diventa evidente che nulla può essere identificato in sé ma solo attraverso i modi e le forme in cui è comunicato. Per il pensiero postmoderno il mondo è oggetto di infinite interpretazioni tutte ugualmente plausibili. Qui si nasconde l’equivoco più grosso in cui a volte incorre il postmodernismo: le storie e le interpretazioni non hanno infatti tutte lo stesso valore.9

Ogni testo pone certi limiti alle interpretazioni possibili, nella misura in cui contiene certi elementi e non altri.10 Lo stesso vale per il mondo sociale e materiale: si può interpretarlo e raccontarlo in molti modi, e questi modi corrisponderanno a diversi punti di vista, ma non si può reinventarlo a piacimento. Pensiero questo che lascia intravedere un’idea di realtà piuttosto angusta, o comunque tarata su culture che poggiavano su un senso comune molto forte e ritenuto superiore alle altre culture. Atteggiamento culturale necessario come collante del gruppo in epoche nelle quali lo stare insieme condividendo una cultura che detta i comportamenti era indispensabile perché le tecniche disponibili poggiavano sulla loro incorporazione in soggetti umani (memoria, abilità, iniziazione).11 La storia della modernità ha travolto questi mondi, la coscienza antropologia e in specie l’antropologia del rimorso hanno reso inaccettabile questo modo di sentire, pensare, essere. La realtà è già sempre, per noi moderni, molto più che per le epoche precedenti, interpretata o possibile di diverse interpretazioni interne ed esterne alla cultura di appartenenza.

A partire dall’XVIII secolo si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite “grandi narrazioni”. Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono alcuni tratti peculiari: l’ottimismo verso il futuro, la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale sociale scientifico, l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere. Un colpo netto e generalizzato alle narrazioni e auto-rappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secolo viene inferto da Nietzsche. Suo scopo è scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso.12 I sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di spiegare il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni non funzionano più, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall’unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità.13

Comprendere la trasformazione della letteratura verificatisi specialmente negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, richiede che si tenga conto della metadimensionalità dei testi letterari. La metanarrazione è una problematizzazione polivalente della prospettiva critica riflessiva analitica e ludica di ciò che viene narrato, riflesso su sé stesso.14 In Mercier e Camier l’autore gioca con il narrativo inserendo dei riassunti che seguono ciascun capitolo, riaffermandone la narrazione. Problematizzando la relazione riflessiva tra il discorso affermativo della narrazione di ogni capitolo e la sua parafrasi quasi tautologica condotta nei riassunti, l’autore crea una distanza ironica. Così, Beckett sembra porre il problema di come scrivere sulla scrittura allo scopo di comprendere che cosa significhi il procedimento narrativo.15 Il gioco beckettiano del riassunto tautologico dell’identico concentra l’attenzione del lettore sulla possibilità di sostituire la narrazione con il sommario oppure impone alla narrazione stessa una trasformazione deliberatamente riduttiva. Il commento indirizzato in senso tautologico è la dimostrazione beckettiana dello stallo del discorso letterario. La metanarrazione rappresenta in tal caso uno strumento di autosvelamento della finzione.16

La metanarrativa, come la meta-interpretazione, può apparire a volte l’invito a qualcosa di infinito. Si può raccontare il racconto del racconto, poi interpretare l’interpretazione precedente. Il problema, con il meta, è quando smettere. Quando arrestare cioè la successione di interpretazioni, quando arrestarsi e dire: questo è il racconto.17 

 Irma Loredana Galgano

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Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.

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1W. Krysinski, Borges, Calvino, Eco: filosofie della Metanarrazione, in Signótica, vol. 17, n°1, 2005.

2P. Jedlowski, Storie comuni, Mesogea, Messina, 2022.

3P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

4M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.

5A. Russo, Il fondo bucato. Le ambiguità del paratesto ne «La coscienza di Zeno», in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del Congresso dell’Adi – Associazione degli Italianisti , Adi Editore, Roma, 2014.

6M. Lavagetto, op.cit.

7P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

8P. Jedlowski, Il piacere del racconto, in Imparare dalla lettura, S. Giusti e F. Batini (a cura di), Loescher Editore, Torino, 2013.

9P. Jedlowski, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

10U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.

11R. Màdera, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

12F. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1872.

13B. Collina, La crisi della filosofia come narrazione e autorappresentazione, Zanichelli, 2020.

14W. Krysinski, op.cit.

15S. Beckett, Mercier e Camier, 1970.

16W. Krysinski, op.cit.

17P. Jedlowski, Dentro e fuori dal testo, in Racconti di racconti.

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