Ogni ritorno é sempre anticipato da un moto disordinato di emozioni e pensieri che si rincorrono circolarmente in un caos popolato da desideri e sensi di colpa in contraddizione.
Mi sveglio che sono le sette ed il cielo, a quelle latitudini, é ancora scuro.
Esco e vedo nel buio muoversi alte delle ombre grigie. Ogni tanto appare la luce di una stella qualche secondo per poi venir risucchiata dalla coltre di nubi che corrono veloci.
La quiete aleggia nella brezza che trascina lo stormire delle foglie dei roveri e delle querce. Da lontano arriva un muggito lascivo mentre il fruscio dell’erba mi ricorda che Brandi sta arrivando e tra un po’ mi salterà addosso.
Dopo il Nescafe scaldato nel pentolino del rifugio ci mettiamo in auto e, d’un tratto, sento la pressione scemare.
Torno.
Sto tornando.
Un’altra volta ancora lì, a lottare ogni secondo per non soccombere. Al pensiero dominante, ai desideri comodi e plastificati, all’omologazione delle identità, al non essere nient’altro che un criceto che gira nella ruota pensando che a girare siano solo gli altri.
Produci, mangia e caga.
Lavora, guadagna e spendi.
Questo é quello che siamo. Giro nella ruota ogni giorno, lo so. Ma lo so. E questo non é poco.
Voglio resistere in questa coscienza e mentre zampetto frettolosamente sogno la libertà. Di poter dire, di poter fare, di poter essere.
Non m’importa se non piace, in fondo la vita é un soffio e vorrei riuscire a dire qualcosa di mio prima che quello stesso soffio venga annullato dalla prima raffica di vento.
In auto non parliamo e, mentre l’alba tarda a comparire, i fari illuminano freddamente le strade sconnesse. Il motore gira a basso regime: in ogni momento potrebbe attraversare una volpe, un cinghiale o un cervo e devo stare attento. Quel rumore familiare basso e caldo, un brontolio o un gorgoglio. Amo i motori a scoppio, le auto elettriche mi sembrano garze sterili adagiate sul tavolino in alluminio di un chirurgo anonimo. Tutto sterilizzato, perfetto, illibato, astratto, terribile.
Penso a dove sto andando: sto tornando dalla mia famiglia. Voglio coricarmi tra le braccia di mia moglie sotto le lenzuola scaldate dal tepore del suo corpo che conosco bene e di cui amo ogni imperfezione. Torno dagli occhi di mio figlio che mi osservano e mi chiedono. Chiedono immensamente qualche cosa che ne io, ne qualsiasi società del mondo potrà mai dare.
Ormai tutto ciò che si aggettiva con sociale mi fa orrore. In questa parola risiede l’inganno, il protrarsi di una utopia isterica ed impositiva. Un mostro apparentemente buono, innocuo. Ma che pretende, proprio forte del suo buonismo autoerotico ed autocelebrato, di giudicare la realtà e ridurla alla sua miopia. Solo lo sguardo del bambino va oltre.
L’adulto pensa con la ragione, il bambino pensa con il cuore.
Eppure il sole sorge ancora. Da lontano, dietro la linea morbida delle colline.
Ed in cielo si alza la sagoma di un nibbio reale con la sua coda a due punte ed un arco che mi ricorda il profilo della luna.
In fondo son solo stato qualche giorno con un amico. I nostri cani, i nostri due cavalli. In mezzo alla natura che segue il suo corso nonostante tutte le nostre paure.
Abbiamo cavalcato cercando nuovi percorsi. Senza parlare incluso per ore perché ad ascoltare erano i nostri occhi. Abbiamo cavalcato tra vacche e tori, pecore e capre. Abbiamo attraversato ruscelli, guadato un lago, scalato fino alla cima di colline solo per vedere il cammino da seguire. Ci siamo fermati incantati a guardare le gru che arrivavano ad un lido per riposare. Da sud e poi da nord, prima che il sole si sciogliesse nell’acqua cristallina di un lago artificiale. Abbiamo guardato sorgere la luna piena ed il suo arancione esplodere nell’indaco del cielo mentre la brezza fredda trasportava alle nostre orecchie il trombettare incalzante delle gru, prima che di colpo tacessero come fanno le cicale d’estate quando la luce non brilla più.
In quel momento ho sentito il cuore sciogliersi e chiedere all’universo che mi riportasse indietro nel tempo. Per poter ancora amare mia moglie come si amano i giovani, come fosse la prima volta. Nudi sulla terra calda, senza pudori, animati da fremiti sessuali colmi di infinito. Ho chiuso gli occhi e mi son ritrovato lontano nel tempo, quando in quegli stessi occhi vedevo lo specchio dei mie sogni.
Ma sono in auto e stiamo già avvicinandoci a Madrid.
Corro veloce, ormai non mi interesso più di alcun limite. Non mi interessano più le leggi e qualsiasi aggiornamento sul comportamento che qualcuno decide che dobbiamo tenere per raggiungere un obiettivo che non arriva mai. Ogni misura non é mai abbastanza e qualsiasi misura non porta mai ad un risultato che sia confortante. Al liceo mi avevano insegnato che se una strada non ti porta alla destinazione significa che é sbagliata ed é meglio cercarne un’altra. Tutta la mia vita conferma questa tesi perché nella realtà é così che accade ma, ormai, il senso comune é morto, sostituito da un caos nevrotico ed ideologico.
Mi sento svuotato, violato, vilipeso, stracciato da una società invadente, prepotente ed pressante. Tutta tesa a misurarmi, controllarmi, limitarmi; a schiacciarmi tra le pareti di cemento di un milione di norme, regoline, leggi, decreti ed altre mostruosità burocratiche che, ironicamente, dovrebbero rendermi la vita più semplice, più sicura, più vivibile. Ma che hanno reso la mia vita solo più triste, più contratta. Insomma, meno vita.
Guardo i campi lasciare spazio a monolitici parallelepipedi di colori assurdi crivellati da mille puntini neri dai quali, un numero inquantificabile di ignari contribuenti, può osservare cosa accade fuori dalla loro cella. Quella cella chiamata casa ed, il quale possesso, é il grande obiettivo dei più. Una bella prigione con uno schermo che trasmette ventiquattrore su ventiquattro un concentrato di immagini di quello che accade fuori. Pensano che quello sia un gourmet ma é solo un insaccato di scarti altamente speziato.
Li immagino avvicinarsi alla finestra e pensare che la realtà sia poco attraente, povera e lenta. Non accade mai nulla, tutto sembra sempre uguale ma, davanti allo schermo le immagini scorrono rapide, così le emozioni e l’adrenalina. In una sola ora puoi avere una botta di vita che la realtà non sarà mai in grado di offrire.
La realtà non é abbastanza.
Eppure ieri ero con il mio cavallo, lo guardavo e giocherellando con il suo muso mi riempivo le narici del suo odore. Lo porto addosso con quello dei cani e della legna bruciata nel camino. Assieme a quello dello sterco mischiato alla terra. Un odore così forte e fertile che mi viene voglia di piangere.
Ieri guardavo nel cielo due avvoltoi neri planare con le loro enormi ali ed ora vedo le scie biancastre di aerei graffiarne la superficie.
Sento il telefono vibrare in continuazione: le notificazioni si accumulano sulle immagini delle applicazioni in numeri che non oso leggere. Fino a questa mattina i dati non arrivavano perché non c’era linea ed il cellulare l’ho usato solo per fare quattro foto piuttosto brutte.
“É inutile”, penso. “Ci siamo abituati al brutto come chi si abitua a mangiare da Mc Donald”. É il cetriolino che rende tutto più sfizioso, ed il cetriolino in questo caso é il consenso che otteniamo dagli altri al mostrare una parte, ovviamente filtrata da appositi programmi, di noi.
Siamo tutti diventati giocoforza populisti e politici. Le nostre vite son in vendita, siamo oggetti in vendita.
Venditi e venderai.
É piacere che ci rende importanti; é il potere economico che questo piacere genera che avvalla la nostra posizione nel mondo.
Lascio il mio amico a Madrid, tra i suoi cani, la sua splendida famiglia e la fortuna che ha di lavorare con i cavalli. Lo guardo allontanarsi ed ho un moto di sana invidia ma non son come lui.
O forse, ho solo scelto la strada sbagliata.
Superata Zaragoza inizio a calcolare i chilometri che mancano a destinazione. É un conto alla rovescia lento seppur, ogni volta che do una occhiata al cruscotto, la velocità superi abbondantemente i centocinquanta.
L’ansia cresce, il mal di stomaco torna a farsi sentire, un senso di nostalgia mi pervade.
Sogno di prendere la mia famiglia ed i miei animali e scappare. Fuggire da tutto e da tutti in un posto come quello che ho appena lasciato.
Ho bisogno di respirare.
A una ventina di chilometri da casa mi rendo conto che, in questi giorni passati fuori dalla società, coricandomi la sera a letto ero sereno e non ho mai desiderato non risvegliarmi il giorno seguente come ormai accadeva da mesi. Addormentarmi per risvegliarmi altrove, in un posto fatto di luce, fatto di pace. Ovunque. A patto che sia lontano da questo mondo cinico e concentrato ad annichilire la profondità di qualsiasi desiderio. Quel desiderio frantumato in mille pezzettini e che ogni volta cerco di riassemblare. E nonostante ne curi le linee di rottura con lacca urushi e polvere d’oro, i colpi che riceve continuano a demolirlo.
E di polvere d’oro non me ne rimane quasi più.