Di tutte le vite che son scivolate via dall’abbraccio che mi aiutava ad andare avanti, la sua é l’unica di cui mi ricordo ogni giorno.
Sembra l’altro ieri ma son passati quasi otto anni da quando mi chiamò per chiedermi le immagini della mostra che stavo allestendo. Ma non arrivò mai a vederle.
Lui era nel letto “sto lottando” mi disse. Come se fosse la cosa più normale del mondo, la più naturale che potesse accadere, una cosa da vivere con la dignità che un momento così, colmo di mistero e immensità, merita.
Lo immaginai sdraiato nel salone di casa sua, con una bacchetta di incenso accesa e riposta nell’apposito supporto che consisteva in una statuetta erotica di una figura femminile sdraiata, a gambe divaricate con la vagina in evidenza ed aperta affinché vi ci si potesse infilare il bastoncino. Febbricitante e pronta per l’amplesso le dita giocherellavano con i capezzoli di due piccoli seni gonfi che spuntavano dalle vesti bianche ed il volto dipinto da Geisha.
Lui lavorò fino all’ultimo, voleva morire come aveva vissuto: da artista. Libero. Anche nella morte.
D’altronde siam fatti per la libertà e qualsiasi restrizione che la neghi non é accettabile. Lui diceva che l’unico vero luogo dove la libertà poteva trovare espressione e compiersi era quello dell’arte e che l’arte senza questa dimensione non aveva alcun senso di esistere.
Di fatto, se da un lato vedeva nell’arte una possibilità immensa, dall’altro, a malincuore, leggeva nella maggior parte della produzione a lui contemporanea, la disfatta di quella stessa ed immensa possibilità. La libertà per lui non era un problema di cosa ma di come. Il compito dell’artista era di trovare il come, trovare la libertà in quello che apparentemente la nega. Diceva che una volta questo limite era la committenza ed ora un lascivo e superficiale consumismo ignorante.
L’arte era per lui il meglio ed il peggio diceva. Il meglio ed il peggio.
L’ultima volta che ci incontrammo era solare, bello, sorridente, toccandosi la barba bianca. Era dimagrito e me ne accorsi quando lo abbracciai. O meglio, quando mi abbracciò perché il rispetto e l’amore che provavo e provo ancora per lui mi mettevano in soggezione. Sapevo di essere davanti ad una persona grande, non per la fama che lo accompagnava, ma per l’umanità che lo illuminava.
I suoi abbracci erano lunghi e ristoratori. Ogni volta che mi abbracciava sentivo pace.
Parlammo per ore.
Lui amava la vita, l’amava tutta intera senza riserve. Dal suo sgorgare fecondo fino alle ceneri. Amava la madre della vita, la vagina, perché in questa vedeva il senso di tutto. “El coño” era il frutto maturo pronto a lasciare che i suoi semi cadano in terra fertile, un guscio da aprire delicatamente per non distruggere la mandorla in esso protetta. Una vertigine in cui entra amore per generare nuova vita.
E così amava le donne, la sensualità di quei corpi e quelle anime create per il miracolo della rinascita. Capaci di tutto affinché quel miracolo non avesse mai fine.
Qualche giorno prima del nostro primo incontro, una assistente di una nota galleria d’arte mi aveva parlato di lui come un maschilista in virtù del suo guardare al corpo femminile. Ma non aveva capito nulla e forse ad oggi, come forse molti altri, non ha capito ancora nulla.
Il corpo sensuale e voluttuoso era il modo di dire sì all’universo che attraverso quello stesso corpo, fatto di carne, di sapore ed odore, si rigenera in un tentativo incessante di creare bellezza e grandezza.
Quell’ultimo giorno parlammo della voluttuosità di corpi che si intrecciano nel tentativo erotico di fondersi ed essere uno solo. Nel tentativo di darsi un piacere unico, nell’unico atto umano che lotta per condividere il tempo presente annullando la distanza che generalmente ci obbliga a vivere solo il passato dell’altro essere in un tentativo frustrato di condivisione.
Ricordo i suoi occhi luminosi e beffardi. Sempre profondamente fanciullo lui era generoso, dava tutto in cambio del poco tutto che l’altro gli poteva dare. Ma a lui andava bene così perché sapeva che il tuo poco tutto era tutto ugualmente e che il dono di quel poco tutto valeva l’infinito.
Mi ricordo quando mi regalò un libro di Jin Ping Mei. Mi chiamò e mi disse di passare da una libreria in Gracía. Andai e trovai un pacchetto. Lo presi e lo aprii El erudito de las carcajadas. Lo chiamai per ringraziarlo e lui mi disse che agli amici é importante fare doni che li facciano ridere ed apprezzare di più la vita. Mi sorprese molto, innanzitutto perché mi chiamava amico e mi trattava alla pari, cosa che semplicemente non ero. Ma per lui sì e per qualche ragione a me ancora incomprensibile a lui importavo. Ora che non c’é più ricordo sempre un passo di quel libro, o forse era una citazione scritta nell’introduzione, in cui si diceva che solo i Santi o le bestie non sentono nulla mentre gli uomini si innamorano.
Lui non parlava mai male di niente e di nessuno, se una cosa o qualcuno non gli piaceva, semplicemente soprassedeva come se non avesse tempo ed energie da perdere inutilmente in qualcosa di sterile.
Allontanava da se ciò che non dava frutto e cercava di avvicinare qualsiasi persona avesse ancora desiderio. A volte un desiderio disperato, frustrato o negato come era il mio ma ancora vivo nel fondo della pupilla.
Un giorno mi disse che lui cercava sempre di vedere se negli occhi della persona che aveva dinnanzi vi fosse scintillio, il riverbero di un’anima che non si era spenta.
Mi disse che il mondo si stava avvicinando alla perdita della coscienza della sua stessa realtà attraverso la ferocia di una tecnologia mal utilizzata. Era quindi importante riappropriarsi della terra, di tornare a mettere le mani dentro la terra per sentirne il calore, le palpitazioni, l’immensità che nessuna scienza avrebbe mai potuto spiegare. Toccare terra era come toccare una donna, come toccare un animale, era come toccare il momento in cui tu come parte della vita ti riappropri della sua essenza misteriosa e trascendente. E che solamente con la coscienza di essere minuscolo di fronte alla vita avresti potuto esserne parte fondamentale.
Di lui nella mia vita non ce ne sono stati altri.
Gli altri senza dubbio son stati ma mai con quella generosità e quell’abbraccio aperto a tutto quello che sei, anche all’opinione opposta o ad una visione differente. Era disposto ad abbracciare tutti, anche gli opposti, soprattutto gli opposti! Sempre che avessero quel guizzo negli occhi, sempre che fossero animati dal desiderio, erotico e vitale, sessuale e sessuato, di generare meraviglia.
Mi diceva sempre che un contadino sapeva molto di più di noi, perché lui sapeva cosa fosse la terra, la vita e la morte. Lui era più vicino alla vita di quanto noi potessimo mai sperimentare. Mi diceva di abbracciare il contadino perché lui ti può insegnare molto di più di qualsiasi filosofo, artista o scrittore che opera dal suo studio dorato o ufficio serrato da quattro pareti in una città anonima uscendo solo per una serata di gala o un aperitivo.
E poi diceva che non bisogna mai arrendersi, mai cedere ai ricatti, mai svendere i propri sogni e ciò in cui si crede. Di mettersi sempre in dubbio, quando possibile con leggerezza ed ironia, ma mai negarsi il piacere della verità. E soprattutto lasciare che l’odio scivoli via, quello degli altri ma, soprattutto, quello insito nel proprio cuore. Perché tutti odiamo, soprattutto quando non ne siamo coscienti. Lasciare che scorra via e continuare ad amare ovunque e chiunque ne abbia bisogno. Nonostante i tradimenti, nonostante la negazione, nonostante il disprezzo.
Amare ovunque ci sia una scintilla.
Lui era così, potente, divertente, ironico, scherzoso, sempre presente, vero.
Faceva scherzi a tutti ed ogni volta i suoi occhi si illuminavano come quelli di un bambino che ha appena scoperto il salto di una rana in uno stagno. Amava parlare, amava discutere. Moltissimo. E quando lo faceva muoveva le dita delle mani ferme nell’aria come se stesse plasmando una immagine. Forse il corpo di un fantasma con il quale poter giocare o forse il corpo di una donna da poter annusare e baciare.
Lui era solo lui immensamente.
Lui, Bigas Luna.