Verso il bianco, libro di Paolo Miorandi in uscita da Exorma, prende le mosse dalla fine. Ovvero principia laddove si addensa in una fotografia la morte di Robert Walser, l’autore de La passeggiata, di Jakob von Gunten e de I Fratelli Tanner. È a partire da questa fine, dallo sguardo sulle ultime impronte lasciate da Walser nella neve a Herisau, che Miorandi – procedendo in un percorso a ritroso – affronta un pellegrinaggio tra luoghi, vicende biografiche e opere del grande scrittore nel tentativo di tracciarne un profilo il più “profondo” possibile. Ovvero di disvelare il “mistero” rappresentato da una delle personalità più “atipiche”, incatalogabili ed eccentriche del Novecento. Un lavoro – la cui bellezza letteraria in sé è un dato che distingue ogni pagina del libro – che si spinge in profondità nell’analisi dei personaggi walseriani, veri e propri campioni del non-esserci, artisti che coltivano l’arte dell’essere ai margini e, contemporaneamente, dell’essere profondamente a contatto con la vita tutta osservandola e assaporandola. Una tensione il cui riflesso giunge direttamente e sintomaticamente dallo stesso stare al mondo di Walser, e dalla sua volontà di sottrazione, di annullamento, e alla sua incoercibile tensione verso qualcosa di “segreto” ma anche “ordinario” presente nella vita stessa. Una tensione mistica, in fin dei conti, che aspira allo svuotamento, all’annullamento.
Nel testo di Miorandi visioni, frammenti, sogni e visioni e paesaggi costutuiscono il materiale vivo con cui creare questo percorso che, allo stesso tempo, diventa anche un resoconto autobiografico si traordinario fascino, all’interno del quale prendono letteralmente vita l’uomo Walser e le sue opere.
Paolo Melissi
#
Il pomeriggio di Natale del 1956 giunse una chiamata alla polizia della città di Herisau, nella Svizzera orientale: due scolari avevano trovato il cadavere di un uomo morto in un campo di neve. Una donna che era salita ad una fattoria vicina per fare visita ai genitori, preoccupata per l’inquieto abbaiare del cane, aveva chiesto ai ragazzi di andare a vedere se fosse successo qualcosa. I ragazzi avevano messo gli sci ai piedi e, scesi per poche centinaia di metri, avevano veduto l’uomo disteso nella neve. «Pensavamo che avesse bevuto troppo, – ha detto uno di loro qualche anno dopo nel corso di un’intervista, – poi, avvicinandoci, ci accorgemmo che era morto».
La polizia, chiamata dalla casa dell’agricoltore Hefti, giunse sul posto, scattò alcune fotografie e rimosse il corpo. Il cadavere fu identificato: era il signor Robert Walser, di settantotto anni, internato nel manicomio cantonale di Herisau. Alcuni decenni prima Walser aveva raggiunto una certa fama di scrittore in Svizzera e in Germania, ma sebbene circolassero ancora alcuni suoi libri quasi nessuno si ricordava più di lui. Da tempo infatti Walser si era messo in disparte. Le lunghe passeggiate sulle strade e i sentieri della zona erano rimaste il suo unico contatto con il mondo esterno al manicomio.
Quattordici segni scuri, da qui sette passi. Per ogni passo due impronte di grosse scarpe da montagna nel candore del pendio. Alla fine il corpo disteso sul lenzuolo di neve.
La prima della quattro foto mantiene il pudore della distanza. Il bianco occupa quasi tutto il campo dell’immagine. Si scorgono soltanto le sottili linee delle staccionate e, in un angolo, quello che sembra essere il muro di una casa. L’uomo a terra ha il volto verso l’alto, girato leggermente di lato, forse a guardare il bosco o il cielo. Ha un braccio proteso, il cappello sfuggito al gesto del saluto, una mano sul cuore. Visto da qui potrebbe essere addormentato. Mi accorgo di una cosa che non avevo mai notato prima. Forse a causa della prospettiva rimane una zona bianca tra l’ultima impronta lasciata dai passi e il corpo dell’uomo, quasi esistesse uno spazio vuoto e indecifrabile che separa la fine del cammino dal silenzioso adagiarsi nel bianco.
È questa mancanza proprio al centro dell’immagine ciò mi commuove? È questo spazio vuoto che rende la foto una toccante e perfetta rappresentazione della vita?
(…)
È come se una piccola fiamma rilucesse là in fondo, al limitare del prato, adesso che sta calando l’oscurità e il bosco diventa tenebra fitta e paura. Mi viene in mente il paesaggio nevoso che occupa interamente la prima parte delle Voci spirituali, il grande film di Aleksandr Sokurov. Guardandolo, sono convinto di aver visto un fuoco nella profondità del paesaggio, di averne sentito scoppiettare la fiamma e di aver pensato che, se solo avessi potuto avvicinarmi, ne avrei sentito il calore sul palmo delle mani.