Uno scrittore russo, Vasilij Rozanov, descrive Dostoevskij come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue. – Paolo Nori –
Sanguina ancora, il titolo dell’ultimo libro di Paolo Nori, che esce oggi in libreria da Mondadori, rimanda a una ferita aperta nell’autore al momento della prima lettura di Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij. Paolo Nori lesse quel libro quando era ragazzo, intraprendendo una sorta di iniziazione che aprì un ferita che, ancora oggi, continua a sanguinare. Nel testo che anticipiamo, grazie alla casa editrice, Nori si interroga sul perché di quel sanguinare, dando una risposta altrettanto sanguinosa, che lo porta a vedere nello scrittore russo un uomo che non ha mai smesso di essere spaesato e senza difese dai colpi inferti dal suo tempo. Intorno a questa interrogazione, Nori procede a una ricostruzione della vita di Dostoevskij, mettendo in luce il suo genio letterario, le sue aspirazioni rivoluzionarie, ma anche gli aspetti più fragili della sua personalità. Ma il lavorio compiuto da Nori non si esaurisce qui, perché nella sua narrazione lampeggia a tratti un altro filo conduttore, quello che lo spinge a raccontarsi, insinuandosi per frammenti e incise nella fitta trama del tema dostoevskiano, mettendo a fuoco e a frutto la lunga “convivenza” e il lungo “confronto” con lo scrittore russo.
L’incontro con Delitto e castigo è rievocato con precisione cenestetica da Nori:
“Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento in cui ho incontrato Delitto e castigo, io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, la mia stanzetta all’ultimo piano della nostra casa di campagna, mi ricordo com’ero voltato, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo, mi ricordo che mi chiedevo nella mia testa “E io?”
Fëdor Michajlovic Dostoevskij, invece, è
“ingegnere senza vocazione, traduttore umiliato dai propri editori, genio precoce della letteratura russa, nuovo Gogol’, meglio di Gogol’, aspirante rivoluzionario miseramente scoperto e condannato a morte, graziato e mandato per dieci anni in Siberia a scontare la sua colpa, riammesso poi nella capitale, quella Pietroburgo il cui mito, con le sue opere, contribuirà a costruire, «la più astratta e premeditata città del globo terracqueo», secondo una celebre definizione del suo uomo del sottosuolo, giocatore incapace e disperato, scrittore spiantato vittima di editori cattivi, marito innamoratissimo di una stenografa di venticinque anni più giovane di lui, padre incredulo che scrive a un amico: «Abbiate dei figli! Non c’è al mondo felicità più grande», pazzo benedetto che mette per iscritto le domande che tutti noi ci facciamo e che non osiamo confessare a nessuno, uomo dall’aspetto insignificante, goffo, calvo, un po’ gobbo, vecchio fin da quando è giovane, uomo malato, confuso, contraddittorio, disperato, ridicolo così simile a noi”.
Intorno a questa “caratterizzazione”, con il suo consueto incedere spirale, Nori mette insieme momenti della vita e della carriera dell’autore, ne esplora angoli reconditi, evidenziando relazioni con altri autori, rievocandone anche le opere meno conosciute, riportando testimonianze di persone che ebbero a che fare con lui. I frammenti si sommano, e si mescolano con quelli della biografia dello stesso Nori – scopriamo, tra l’altro, che da ragazzo lavorava in Algeria e in Iraq, e che leggeva Frederick Forsyth mentre volava da un paese all’altro.
Si entra dentro Sanguina ancora come si entra in un labirinto, che per essere percorso fino all’uscita necessita prima di tutto del completo abbandono. Solo così sarà possibile, affidandosi alle parole di Viktor Šklovskij o alla rievocazione di Memorie del sottosuolo e de Il giocatore, alla visione di San Pietroburgo come uno dei protagonisti di Delitto e castigo e a una visita dello scrittore a Turgenev, compiere quell’accostamento a Dostoevskij che sta in fondo al libro. E, anche, un po’ a Paolo Nori.
Paolo Melissi
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0.6 A cosa serve?
Uno, mi rendo conto, potrebbe chiedermi: Ma a te piace sanguinare?
In un certo senso, sì. Nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono solo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono “Come stai?”(e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere “Benissimo!” col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli.
C’è un paese, in Sardegna, che si chiama Seneghe, che per quattro giorni all’anno si trasforma nel paese della poesia, perché c’è un festival di poesia e sui muri c’è pieno di cartelli con le scritte dei poeti, come quella di Wisława Szymborska che dice “Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne.” e a me l’ultima volta che ci sono andato, nel 2016, è venuta subito in mente una cosa che aveva scritto Zavattini nel 1967 a Franco Maria Ricci: “Sono pessimista ma me ne dimentico sempre.”
E mi è sembrato che non si potesse essere pessimisti, in quei giorni lì, a Seneghe, e mi è venuto in mente Angelo Maria Ripellino, che quand’era in sanatorio, in Repubblica Ceca, che si curava, chiamava sé stesso e gli altri ricoverati “i nonostante”.
“L’avverbio – aveva scritto Ripellino – si fa sostantivo, a indicare noi tutti che, contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati da raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male.”
Che meraviglia, Ripellino.
E ho pensato che per quelli che leggono i libri, che guardan le mostre, che ascoltano le sinfonie, i libri, i quadri, le musiche che hanno incontrato nella loro vita li hanno aiutati in questa cosa così difficile e così strana, stare al mondo, a essere dei nonostante, a rendersi conto delle loro ferite, dei loro difetti, e ad accettarli, perché come dice un cantante canadese, è attraverso le crepe che si vede la luce.
E questa condizione di nonostante, che io credo riguardi noi tutti, non interviene solo nei momenti decisivi, delle nostre vite, quando siamo in Repubblica Ceca in un sanatorio, credo intervenga anche nella vita di tutti i giorni, nella mia, perlomeno, succede, quando provo un sentimento che non ha un nome preciso, o se ce l’ha io non lo so.
Quel sentimento lì io l’ho riconosciuto, la prima volta, una volta che andavo a prendere una ragazza in stazione, era la prima volta che veniva a trovarmi, a Parma, abitavo a Parma, allora, e intanto che andavo in stazione, mi piaceva tanto, quella ragazza lì, intanto che andavo in stazione mi dicevo “Ma dove credi di andare, ma cosa credi di combinare, ma torna indietro, ma vai a casa”.
Era un misto di ritrosia e di vergogna, ritrosogna, si potrebbe chiamare, che brutto nome, ritrosogna, ecco io la ritrosogna, son passati vent’anni, e quella ragazza lì è diventata la mamma di mia figlia ma io la ritrosogna ce l’ho ancora, tutte le volte per esempio che devo partir per la Russia: “Ma cosa credi di combinare” mi dico, “ma dove credi di andare, ma torna indietro” mi viene da dirmi nella mia testa, “ma stai a casa”, invece poi ci vado, e mi sembra una cosa incredibile, che, nonostante la ritrosogna, riesco poi a andarci lo stesso.
E anche quando ho cominciato a scrivere questo libro sulla vita di Dostoevskij, nella mia testa mi dicevo “Ma cosa credi di fare, ma cosa vuoi scrivere, ma cosa credi di combinare, ma pianta lì”, invece adesso non pianto lì, vado avanti.
0.7 A cosa serve
Mentre scrivevo questo romanzo, nel gennaio del 2020, ho partecipato alla riunione di una rivista che si chiama “Qualcosa”. L’argomento del numero di “Qualcosa” che stavamo preparando era: le storie sentimentali finite male; i disastri sentimentali, praticamente. Noi, quella sera lì, le venti persone che erano lì, di quei momenti che abbiamo passato tutti, che siam stati male per amore, se così si può dire, di quei giorni così dolorosi che eravamo messi così male che ci sembrava di non esser mai stati tanto male nella nostra vita, e non ci sembrava possibile stare peggio, a ripensarci dopo degli anni, quella sera lì ci veniva da pensare “Ma come son stato male bene, quel giorno lì. Ma che bello, essere così vivi”. Ecco. Una cosa del genere